L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'eleganza della principessa, la perfezione della schiava

 di Andrea R. G. Pedrotti

 

Di fronte all'Aida di Hui He non si può far altro che riconoscere la qualità impeccabile di un soprano che si ritroverà con piacere anche nella stagione invernale del Filarmonico. Elegante come sempre l'Amneris dell'esperta Ildiko Komlosi e sempre affidabile la concertazione di Daniel Oren, uno dei simboli dell'Arena.

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VERONA, 30 agosto 2015 - Ultimo cast per l'opera simbolo dell'Arena: Aida. Titolo che fece nascere il mito del festival lirico veronese, quasi sempre presente nelle edizioni che si sono susseguite negli ultimi centodue anni. Com'è noto, questo non è un normale teatro tradizionale, bensì un luogo dove le passioni divengono trascendenti. Le passioni più genuine sono sempre quelle che vengono vissute fuori dagli schemi e al di sopra delle righe. Per due serate (Il barbiere di Siviglia e Nabucco) è mancata una passione che è parte integrante dell'anfiteatro veronese: non abbiamo udito il solito “bravo, Maestro!” e il puntuale incitamento agli artisti che si avvicendano sul palco. Alcuni potrebbero anche esser portati a non apprezzare l'eccessiva emotività, che fa parte essa stessa dell'arte e, perché no, del gusto estetico italiano e mediterraneo. Tutti noi diamo per scontato che la passione ci sia e talvolta ce ne lagnamo, ma quando questa viene a mancare, spesso per colpa di chi di umanità ne ha ben poca, siamo tutti a interrogarci: pubblico, artisti, addetti ai lavori, sulle effettive motivazioni. Ricordiamoci che è la pacifica coscienza innata nell'anima a essere “nume custode e vindice” di tutto il genere umano, che, appunto per questo, può definirsi tale. Bentornato, quindi, all'ormai storico “bravo, Maestro!”, che speriamo di ascoltare ancora per almeno altri centodue anni e non solo.

Quanto il grande disco lunare, che nuovamente s'è affacciato benevolo nella volta celeste quale protettore, Daniel Oren rimane simbolo indiscusso e, ormai, parte integrante dell'Arena stessa, alla stregua dei suoi marmi. Fatta salva qualche sbavatura dei corni, la sua concertazione è ineccepile. Assolutamente conforme al luogo: la forza comunicativa è impetuosa, belli i colori e di spessore sia le scelte dinamiche sia quelle agogiche. La sua bacchetta mira alla grandiosità, raggiungendo l'obbiettivo, forse con qualche pecca di introspezione e profondità d'analisi. I tempi sono particolarmente serrati e il rapporto fra buca e palcoscenico ben controllato, dando piena conferma di come Daniel Oren sappia ciò che vuole e abbia l'autorevolezza per realizzarlo.

Nel cast vocale, fra i bassi, si fa preferire il bravo Giorgio Giuseppini: Ramfis partecipe e pulito nel suono quanto puntuale negli accenti e abile fraseggiatore. Non demerita, comunque, nemmeno il collega di registro Carlo Cigni, il Re. Ildikó Komlósi è un'Amneris di esperienza: la cantante ungherese fa fronte a un certo affaticamento vocale con una notevole prova d'interprete, elegante ed emotiva. E' apprezzabile apprezzare come non le sfugga nemmeno una vocale, perfettamente e completamente pronunciata. Bella la scena del giudizio, affrontata con impeto, senza mai oltrepassare il confine del disordine. D'altra parte, già notammo qui ha Verona come la Komlósi fosse riuscita, con stile, a rendere elegante una partitura verista come quella di Cavalleria rusticana. [leggi la recensione]

Ineccepibile la straordinaria Aida di Hui He. Già applaudita quest'anno in Tosca [leggi la recensione], affronta la parte con assoluta perfezione tecnica, proiezione impeccabile e fraseggio coinvolgente, scatenando ulteriore curiosità e interesse per la Leonora che inaugurerà il Teatro Filarmonico nella Forza del destino del prossimo 13 dicembre. Poco altro da aggiungere riguardo la schiava etiope ideale.

Ancora una volta, dopo il 19 luglio [leggi la recensione], ascoltiamo il Radamès di Dario Di Vietri, il quale mette in mostra le medesime pecche tecniche: il suono non si libera mai appieno e l'emissione è costantemente indietro, vanificando un notevole mezzo naturale. Natura che sostiene Di Vietri per tutta l'opera, ma gli impedisce uno squillo sicuro, poiché l'acuto non risulta mai centrato. Il fraseggio è piatto e poco espressivo, così come la recitazione.

Molto male l'Amonasro di Alberto Mastromarino, incerto fin dal suo apparire si trova in perenne difficiltà vocale. Il timbro chiaro certo non aiuta a conferire solennità al Re degli Abissini, ma la vistosa, nonché tenuta, stecca nel duetto del terzo atto, rende la sua prova completamente negativa.

Nel ruolo della sacerdotessa abbiamo ascoltato Alice Marini, mentre in quello del messaggero, Antonello Ceron.

Bella come già descritta nelle precedenti recensioni la coreografia del direttore del corpo di ballo dell'Arena, Renato Zanella, interpretata da Teresa Strisciulli, Annalisa Bardo, Evghenij Kurtsev e Antonio Russo.

Ottima la prova del coro della fondazione, guidato da Salvo Sgrò, con bella pasta vocale e ricerca espressiva di colori anche grazie alla felice concertazione di Daniel Oren, che conferisce un senso all'assieme con tempi più rapidi, specialmente nel primo atto.

Riguardo la regia di Franco Zeffirelli, che firmava anche le scene, nulla abbiamo da aggiungere rispetto ai precedenti resoconti. I costumi erano a firma di Anna Anni.


 

 

 
 
 

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