La scala e il baule
di Roberta Pedrotti
La ripresa del bell'allestimento di Damiano Michieletto per la prima bresciana della Scala di seta è anche l'occasione per proporre un'intelligente variazione nella prassi recente ma già consolidata dell'aria di baule per il personaggio di Blansac.
BRESCIA, 22 novembre 2015 - Per la prima volta La scala di seta viene calata dalla finestra della camera di Giulia nella sala del Teatro Grande di Brescia. Ci si può stupire, ma non troppo, ché se il titolo è popolarissimo per via dell'ouverture, da sempre nel repertorio concertistico e nelle raccolte antologiche, non così frequente è stata la rappresentazione dell'intera farsa, una delle più articolate del catalogo rossiniano. Se, però, di recente abbiamo avuto una maggior ricorrenza del titolo una buona parte del merito va dato al successo dell'allestimento di Damiano Michieletto, dato a Pesaro nel 2009 e nel 2011, documentato in DVD, ripreso poi alla Scala e ora giunto a Brescia, dove non ha mancato di riscuotere consensi e sane risate a scena aperta.
Ormai un classico, lo spettacolo non invecchia e continua a essere godibile e fruibile a più livelli, dipanando con sapida chiarezza le fila della commedia, delineando con arguzia i caratteri, soppesando gag e atmosfere, ma anche tracciando un raffinato gioco di scatole cinesi fra realtà e finzione: la quotidianità contemporanea dei piccoli riti di ogni giorno, dal caffé mattutino alla tisana serale con cui Giulia cerca di calmare le sue ansie, si colloca in una casa verosimile e perfettamente funzionante ma giocattolo, su una planimetria arredata in cui anche i personaggi sono portati in scena con carrelli come manichini pronti ad animarsi con la musica. L'ironia surreale di Rossini si sposa a meraviglia con il carattere della più sentimentale delle sue commedie in un atto e non si dica che il matrimonio combinato stride con un'ambientazione moderna: può benissimo apparire come un fidanzamento passivamente accettato per abitudine con un giovanotto di buona famiglia gradito al parentado tradizionalista, ma parallelo alla relazione clandestina e ben più autentica con Dorvil. E ripensando al principio aristotelico secondo cui a teatro sia preferibile "l'impossibile verosimile al possibile non credibile" dobbiamo ammettere che tutto, nell'assurdità irrealistica della commedia cantata, ci suona assolutamente verosimile.
Certo, se la macchina teatrale è oliata alla perfezione, l'impegno indiscutibile del cast non sempre è sorretto dall'esperienza e dalla personalità per spiccare il volo, ma il ritmo e la cura dell'azione restano il punto di forza di questo godibilissimo spettacolo. Per il resto alla Giulia prodiga di ricami sovracuti di Bianca Tognocchi e al simpatico Dorvil di Francisco Brito manca un po' di mordente e soprattutto di proiezione nel canto: la prima è un soprano leggero leggero che forse potrà conquistare maggior spessore (sempre nell'ambito di questo repertorio, naturalmente) con il tempo e lo studio; il secondo avrebbe bel colore e potenzialità, ma il suono è costantemente indietro, povero di squillo e penetrazione. Laura Verrecchia è un po' aspra in acuto, ma sa come portare dalla sua il pubblico sfruttanto appieno la caratterizzazione voluta da Michieletto di una Lucilla fin troppo rigida e morigerata che scopre improvvisamente la sua femminilità perdendo – per quanto goffamente – ogni freno inibitore. Leonardo Galeazzi non avrà le morbidezze del provetto belcantista, ma è un Blansac assolutamente convincente, del tutto compreso nel suo ruolo, sempre puntuale e a fuoco nel canto. Filippo Fontana, alle prese con la parte davvero insidiosa di Germano, se la cava con onore forte soprattutto della sua esperienza nei ruoli di baritono buffo e brillante, il carattere tenorile della sua voce, poi, lo sostiene nei passaggi più scabrosi sul passaggio acuto, senza che tuttavia la sua aria, assai complessa e articolata, lasci un segno memorabile. Manuel Pierattelli, infine, è un adeguato Dormont.
Sul podio Francesco Ommassini non entusiasma troppo, anche per una prova non proprio elettrizzante dell'orchestra dei Pomeriggi Musicali, che a ranghi debitamente ridotti mette maggiormente in luce qualche sfilacciamento nella pasta degli archi e un settore dei fiati non irreprensibile, soprattutto nei soli dell'oboe dell'ouverture. La concertazione prosegue con correttezza, priva, però, di spirito e vero mordente teatrale, di quella varietà di brio e malinconie che dovrebbe essere il sale della partitura e invece si riduce a qualche placido allargamento nei tempi (davvero poco felici quelli nell'aria di Germano).
Una nota d'originalità non può, però, non essere apprezzata. Nella Scala di seta non è presente nessun numero solistico per Blansac, che pure è personaggio assolutamente centrale nella vicenda e pare, per il resto, all'impegno musicale di Giulia, Dorvil e Germano. Alberto Zedda, evidentemente, ha sempre mal digerito la cosa e visto legittimo nell'ottica ottocentesca delle convenienze teatrali e delle arie di baule l'inserimento di un assolo anche per il dongiovannesco promesso sposo della protagonista, individuato di preferenza in "Alle voci della gloria", pagina rossiniana coeva alla composizione della Scala di seta ma priva di una precisa collocazione (probabilmente aria alternativa per una non meglio identificata opera altrui). L'uso ribadito in tutte le produzioni pesaresi degli ultimi anni ha finito per consolidare quasi fosse parte integrante della partitura quella che sarebbe invece null'altro che un'interpolazione d'occasione. Così la riflessione filologica rischia di sclerotizzarsi nel suo contrario, di divenire automatismo inconsapevole. Tuttavia, è pur vero che lo spettacolo di Damiano Michieletto è pensato come un meccanismo a orologeria regolato sulla partitura così come era stata eseguita al Rof e, di fatto, la scena di Blansac che apre la seconda parte (la farsa è divisa in due da un intervallo. Un arbitrio senz'altro, ma ben motivato dalla coerenza e dall'inventiva dell'allestimento) non può essere eliminata con un sacrificio indolore. Bene si è fatto, però, a variare, proprio in virtù del carattere mobile dell'aria di baule ad usum dell'interprete di turno: Blansac, così, si è ripresentato al proscenio intonando “Occhietti miei vezzosi”, la cavatina del parimenti vanaglorioso ricco seduttore e promesso sposo deluso Buralicchio, dall'Equivoco stravagante, andato in scena a Bologna, per appena tre repliche, pochi mesi prima del debutto lagunare della Scala di seta. Per quanto i versi di Gaetano Gasbarri siano decisamente più grevi e spigolosi di quelli levigati della farsa veneziana, il carattere del brano non è disadatto al personaggio e, per di più, ricorda un altro curioso caso filologico, essendo stato in realtà quasi certamente sostituito durante le rappresentazioni dell'Equivoco con un'altra aria di cui non si è rinvenuta la musica ma che coincide nel testo con “Se ho da dirla avrei molto piacere”, di paternità discussa, inserita nella ripresa romana del Turco in Italia e recentemente rientrata in repertorio. Non si hanno invece tracce di esecuzioni ottocentesche effettive di “Occhietti miei vezzosi” (il cui tema iniziale diverrà, curiosa coincidenza, proprio l'introduzione del Turco!).
Questa accortezza che rielabora in modo intelligente i principi e le strutture di una messa in scena di equilibrio per sé inalterabile ci mette decisamente di buon umore. Chissà, però, se in assenza di un cenno anche minimo nel programma di sala, la buona idea nata dietro le quinte sarà passata anche al di qua del palcoscenico? Chissà se si sarà colto che quel brano è attaccato da Blansac davanti al sipario chiuso e prosegue fra i colleghi che si stanno ancora rilassando nell'intervallo proprio perché quel brano non viene dalla Scala di seta, ma è stato preso in prestito da un'altra opera di Rossini per festeggiare questo debutto bresciano?
foto Alessia Santambrogio