Violoncelles, vibrez!
di Alberto Spano
Il grande violoncellista ungherese Miklós Perenyi torna a Bologna dopo quarant'anni di assenza per un affollato concerto - a ingresso libero - organizzato in collaborazione fra Teatro Comunale, Musica Insieme e Conservatorio, i cui migliori allievi delle due classi di violoncello hanno dato ottima prova di sé prima dell'esibizione del Maestro.
BOLOGNA, 22 settembre 2015 – Rincuora l'animo vedere il Teatro Comunale di Bologna gremito di pubblico, per lo più giovane e per lo più formato da soggetti che non vi hanno mai messo piede dentro. Il piccolo miracolo è accaduto il 22 settembre, allorché una felice sinergia fra istituzioni pubbliche pubbliche e private (Teatro Comunale, Conservatorio e Musica Insieme) ha reso possibile un concerto molto speciale dal titolo “Ouverture!”, col sottotitolo birichino “La classica torna in città”, quasi a volerlo considerare una riapertura ufficiale del teatro dopo la pausa estiva.
Serata in due parti: nella prima sul palco era piazzato l'Ensemble dei Violoncelli del Conservatorio di Bologna, vale a dire dei migliori allievi delle due classi di violoncello, virtuosamente riuniti a formare un organico di ottimo livello tecnico, con un suono curato e molta disciplina. Sul leggio due brani celeberrimi: Violoncelles, vibrez! di Giovanni Sollima, nella sua versione originale per ottetto di violoncelli. Quella del 1999 cioè, creata in occasione del primo decennale della morte del violoncellista e didatta Antonio Janigro, eseguita per la prima volta al Conservatorio di Milano da un ensemble straordinario di ex allievi di Janigro quali Julius Berger, Mario Brunello, Thomas Demenga, Enrico Dindo, Michael Flaksman, Antonio Meneses, Giovanni Sollima e Gustavo Neiva Tavares. Una dozzina di minuti di musica intensa in cui su un suadente tappeto sonoro di sei violoncelli, due solisti gareggiano scambiandosi melodie arcane, armonie d'altri tempi e virtuosismi spudorati, con ampio uso del vibrato, fino ad un'inebriante cadenza a due in cui ogni mezzo è utilizzato per raggiungere una specie di estasi sonora. Un pezzo di grande virtuosismo, soprattutto per i due solisti (a Bologna gli impeccabili Tiziano Guerzoni e Jacopo Paglia) che, dopo sedici anni da quella prima stellare esecuzione, non smette di avere una straordinaria presa sul pubblico, anche il meno smaliziato.
La preparazione accurata e la buona tecnica degli strumentisti del conservatorio la si è ulteriormente apprezzata quando sul palco si sono ritrovati in trentadue. Davvero eccezionale il colpo d'occhio, con gli strumenti dalle tante diverse sfumature di colore. Il celebre Canone di Johann Pachelbel, tanto strapazzato in matrimoni e cerimonie, in questa trascrizione per trentadue violoncelli ha ancora una volta fatto il suo dovere di pagina genialmente costruita e felicemente evocativa, grazie anche al buon amalgama sonoro e al passo mai fiacco dei ragazzi del Martini.
Successo popolare e grande festa della musica. La qualcosa non era scontata. Come non era scontato il ritorno sul palco del Comunale nella seconda parte, dopo ben quarant'anni dalla sua ultima presenza in città, del grande violoncellista ungherese Miklós Perenyi, sessantasette anni, allievo dai cinque di Miklós Zsámboki (già allievo di David Popper), poi perfezionatosi negli anni '60 con Enrico Mainardi e Pablo Casals. Un'assenza assolutamente inopinata e inspiegabile: da quel memorabile concerto, cioè, che il Nostro a soli ventisette anni tenne nel maggio 1975 al Teatro Comunale con l'Orchestra della Radiotelevisione di Budapest, in cui lasciò tutti a bocca aperta interpretando da par suo il primo Concerto di Saint-Saëns per violoncello e orchestra. Rieccolo finalmente ora esibirsi in una perfomance che ha voluto offrire alla città e agli allievi del conservatorio dove è stato invitato a tenere una master class nei due giorni successivi. Buon esempio di ciò che si dovrebbe fare quando le istituzioni dialogano e quando artisti di questo calibro danno la loro disponibilità. Sì, perché stiamo parlando di uno dei giganti del violoncello contemporaneo, da alcuni considerato il vero erede di Casals, un musicista immenso, la cui grandezza è pari solo alla modestia. Quando ha attaccato la seconda Sonata in fa maggiore op. 99 di Brahms il pubblico del Teatro Comunale è letteralmente trasalito: chi ricordava più un suono simile, con una tale intonazione, un fraseggio così eloquente, una tale naturalezza del discorso e del far musica? Uno stile che non conosce regole, mode, filologie, tecniche: ascoltando Perényi vien spesso di pensare che un ideale supremo sia stato conquistato da lui con una primigenia ovvietà. La pasta del suo suono contiene una qualità e una capacità di penetrazione nell'aere che nessuno dei tanti virtuosi che dominano ora il mercato possiedono più. Una dolce luminosità vi persiste, un'intonazione assoluta, un virtuosismo accecante, che però non si nota, non deborda. Cioè il vero virtuosismo. La musica che si produce pare scaturire direttamente dalla pagina, e a volte sembra di sentire la 'voce' di Brahms. Medesima impressione nel raro Mephisto Valzer n. 2 di Liszt trascritto da István Lantos, nella Rapsodia n. 1 di Bartók e soprattutto nella stupenda Suite Italienne da Pulcinella di Igor Stravinskij trascritta da Gregor Piatigorsky. Al pianoforte c'era il ventiduenne figlio Benjamin Perényi, dal talento musicale indubbio, ma diverso, un po' esuberante e a volte in conflitto con quello paterno. Padre e figlio, durante il concerto leggermente distaccati fra loro, alla fine del programma, fra gli applausi scroscianti di un pubblico quasi impazzito, si stringevano la mano professionalmente, senza nessun apparente segno d'affetto o parentela. Un attimo eloquente, un'immagine carpita che rimane bene impressa nel ricordo, poco prima di essere deliziati dal bis, il Menuet dalla Petite Suite di Claude Debussy, trascritto da Zoltan Kocsis.
Alberto Spano