Prima il dettato, poi il mito
di Francesco Lora
Il progetto “Re-sound Beethoven” fa tappa al Theater an der Wien per le Sinfonie nn. 5 e 6: Martin Haselböck e la sua Orchester Wiener Akademie restituiscono i capolavori con una rusticità interpretativa dalla quale – se si vuole – ripartire.
VIENNA, 18 novembre 2015 – L’Orchester Wiener Akademie, stabilmente diretta da Martin Haselböck, è un ensemble strumentale poco appariscente a livello internazionale, e dunque attivo soprattutto in Austria, il quale partecipa tuttavia in misura rilevante e significativa alla strabocchevole proposta artistica della capitale. Non è un mistero che le maggiori istituzioni di opera e concerti a Vienna siano in primis luogo d’esibizione delle più favolose risorse naturali e tecniche del mondo musicale: si pensi alle lussuose compagnie di canto messe insieme allo Staatsoper, o alla rotazione costante delle massime orchestre del mondo nel Musikverein. Tanto sfarzo sublime può andare a discapito di una più sottile ricerca sul repertorio o sull’interpretazione, entrambi assestati su quella specifica tradizione che premia l’accattivante immediato. L’Orchester Wiener Akademie contribuisce a riequilibrare questo orizzonte: si interessa di prassi esecutiva storicamente informata, imbracciando strumenti originali, e propone l’esecuzione di capolavori negletti – nel prossimo dicembre rispolvererà il raro oratorio Susanna di Händel – o quella di capolavori arcinoti, ma sotto una luce diversa dal consueto viennese.
Attualmente la compagine sta proseguendo il progetto “Re-sound Beethoven”, dedicato alle sinfonie del compositore sommo, con particolare attenzione al loro ricollocamento nelle giuste cubature spaziali e al loro ricongiungimento con le altre opere strumentali, spesso più citate che conosciute, che con esse condivisero stesura e debutto. È il caso, per esempio, del Wellingtons Sieg oder die Schlacht bei Vittoria, singolare e un tempo celebre partitura a programma eseguita per la prima volta insieme con la Sinfonia n. 7: nello scorso marzo, Haselböck e l’Orchester Wiener Akademie sono tornati a unire i due lavori in uno stesso programma, rispecchiando l’organico strumentale originale e riportandoli nel luogo dove questi esordirono, la Festsaal dell’Österreichische Akademie der Wissenschaften; il relativo CD, appena uscito per l’etichetta Alpha, è caldamente consigliato ai musicofili più curiosi. O a quelli che vogliano tornare alle basi della conoscenza di una composizione: il concerto dello scorso 18 novembre nel Theater an der Wien spiega soprattutto questa seconda opportunità. Anche lì il programma era formato da due capolavori che insieme, in quello stesso luogo, videro la luce: le Sinfonie nn. 5 e 6.
Orbene: potrebbero Haselböck e l’Orchester Wiener Akademie scalare un mercato dove figurano i Karajan, gli Abbado e i Muti, i Thielemann, i Gatti e i Thielemann, gli Harnoncourt, gli Hogwood e i Gardiner, i Berliner e i Wiener Philharmoniker, le big five statunitensi e la Staatskapelle di Dresda, o le più blasonate compagini odierne armate di strumenti originali? Non potrebbero, e altri continueranno a essere i profeti che riveleranno questo o quell’aspetto titanico o malioso del Beethoven oltre il testo scritto o entro le sue più sottili pieghe. Rigidissimo e senza edonismo nelle volontà e nel gesto, Haselböck potrebbe anzi essere sbrigativamente relegato nell’anonima cerchia dei tanti cosiddetti Kapellmeister. Però le sue letture si distinguono per una rara caparbietà nel convertire in fatti oggettivi ogni detto o segno nelle partiture beethoveniane, ripescando con pragmatica naturalezza i controcanti negletti e lo spontaneo equilibrio fonico tra le sezioni. Lo stesso vale per l’Orchester Wiener Akademie, con i suoi archi incordati in budello ma di materica schiettezza, i fiati affetti da qualche simpatica legnosità o pernacchia, i timpani assai indeterminati nell’intonazione del colpo sulla membrana tesa.
Tutto partecipa a restituire l’opera beethoveniana prima nell’evidenza del suo dettato che nella prosecuzione del suo mito. Una lettura priva di intellettualismo o esibizionismo, ché non ve ne sarebbero i presupposti maiuscoli; una lettura invece pulita, onesta, capace di ripartire da zero, scevra dei conseguimenti altrui e animata da benvenuto buonsenso. L’incombere della forza del destino nella Sinfonia n. 5, per esempio, non è certo qui uno dei più minacciosi o monumentali: è un destino piccolo, a misura di borghese, non sconfinatamente romantico, visto più dalla parte dello strumentista nelle file d’orchestra, interessato al suo quotidiano piatto di minestra, che dalla parte del genio scatenante l’iradiddio dal podio. Però nel secondo movimento, di norma staccato sottotempo nell’esasperato intento di enfatizzarne dolorosamente il ruolo, ecco che il passo è quello spedito di un ‘Andante con moto’: il giusto tactus che quasi mai si ascolta. E nella Sinfonia n. 6 l’evocazione del canto degli uccelli non avverrà forse tramite le più forbite prime parti del mondo: ma finalmente si ascolta il rustico e vivace ciangottare dai rami della campagna austriaca anziché una lezione d’ornitologia dal mondo delle idee. Da provare, perché no?