Teatro dell'assurdo, o assurda realtà
di Carla Monni
In seguito alla messinscena di fine anni '90 diretta da Carlo Cecchi e dopo il debutto in prima nazionale al Teatro Bonci di Cesena, La Serra di Harold Pinter approda all'Arena del Sole di Bologna con la regia di Marco Plini e con la nuova produzione realizzata dall'Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con il Teatro Metastasio Stabile della Toscana.
Bologna, 22 gennaio 2015 – È durante l'inverno del 1958 che Harold Pinter scrisse La serra (The Hothouse), in seguito ritoccata e messa in scena per la prima volta allo Hampstead Theatre di Londra solo nell'aprile del 1980 in una produzione diretta dallo stesso autore. La serra, che ha decretato il successo internazionale del drammaturgo inglese, coronato dal Premio Nobel nel 2005, assieme agli altri testi del primo periodo pinteriano – Il compleanno, La stanza, Il calapranzi e Il guardiano – è un'opera tragicomica, strutturata in due atti, intinta di giallo, giochi di potere, situazioni kafkiane e dialoghi surreali, impregnati di comicità, forte ironia e un certo black humor, per dirla alla André Breton.
Dietro il sipario dell'Arena del Sole bolognese si scorge al centro della scena un cubo in plexiglass dove è racchiuso l'ufficio dell'ottuso e apprensivo direttore Roote, e in cui si sviluppano le vicende di sette personaggi. La materia plastica in metacrilato, trasparente più del vetro, rende l'idea di ciò che il regista Marco Plini mira a rappresentare – o forse, secondo la logica pinteriana, non del tutto a svelare – in scena. Tutto sembra apparentemente alla luce del giorno e invece, dentro e fuori quella struttura perfetta e “cristallina”, si cela il potere – ma anche la fragilità – dei personaggi che gestiscono la misteriosa “serra”. Si pensi infatti al personaggio di Roote, interpretato dalle movenze impacciate e dai gesti forsennati di un magnifico Mauro Malinverno, ritratto di un potere inefficiente e corrotto, schiacciato dal sistema che lui stesso ha imposto e creato, e che sin dalla prima scena del I atto si mostra incapace a ricordarsi ciò che accade nel suo “vivaio”. Agli occhi dello spettatore appare infatti un narratore inverosimile, che non si riesce a credere affatto, un uomo in cui prevale esclusivamente la vanità e la bramosia di prestigio, senza invece avere alcuna idea “politica” vera e propria. Al contrario la fisicità posata e l'espressione fredda di Luca Mammoli, ben si adatta a descrivere la persona calcolatrice e priva di veri sentimenti, ma indiscutibilmente più valida e meticolosa, quale è Gibbs, l'assistente del direttore, che ambisce a una posizione sociale altolocata.
Le scene, costruite accuratamente da Claudia Calvaresi, appaiono quasi futuristiche, caratterizzate da pochi elementi e ambienti contenuti: l’ufficio di Roote, una scala, una bicicletta statica, un soggiorno, una stanza insonorizzata (la stanza degli esperimenti), tutti riconoscibili grazie al dislocamento del luogo dell'azione, sottolineato soprattutto dallo spegnersi e dall'accendersi di una luce. Questo escamotage è utile per evidenziare anche due eventi che accadono contemporaneamente in luoghi diversi. Pinter dimostra in questo caso la sua forte vena cinematografica facendo uso della tecnica del montaggio: accosta diverse sequenze, pienamente autonome a livello drammaturgico – come veri e propri sketch – ma sempre concatenate tra loro gradualmente. Per esempio nel I atto la scena in cui sul finire del dialogo di Roote e Gibbs la luce dell'ufficio si spegne e di seguito si accede in soggiorno dove inizia il dialogo tra il solitario e impotente guardiano e addetto alle serrature Lamb, interpretato dal notevole Giusto Cucchiarini, e la segretaria Miss Cutts, interpretata dalla sensuale Valentina Banci, per poi tornare con la stessa tecnica sulla scena dell'ufficio, dove il direttore e l'assistente riprendono il loro discorso dal punto in cui si era interrotto.
Stimolante è il modo in cui l'autore londinese svela poco a poco il luogo in cui si svolge l'intera trama. Inizialmente la vicenda sembra spiegarsi in un istituto indefinito, in quanto i personaggi suggeriscono notizie discordanti sulla sua natura. L'oscura “serra” in cui l'azione prende atto si rivela alla fine un ospedale psichiatrico – la presenza dell’elettroshock ne dà una conferma lampante – in cui però i medici risultano più folli dei pazienti (posto che questi lo siano veramente). Gli “ospiti” sono identificati mediante un numero, segno esplicito di condizione di sottomissione, come avveniva nei campi di concentramento o nei manicomi, e residenti in vere e proprie celle, che richiamano piuttosto la struttura di un carcere (ma “[...] dopotutto non sono mica dei criminali... è solo gente che ha bisogno di aiuto [...]” sostiene nel dialogo iniziale del I atto Roote rivolgendosi a Gibbs). “Pazienti” privati dunque di libertà fisica, di libertà espressiva e della propria individualità. L’istituto rappresenta un potere coercitivo e conservatore, un ambiente ambiguo dove si respira un'atmosfera claustrofobica. Nella serra in questione non si coltivano fiori o piante, ma piuttosto congiure, sospetti e minacciosi interrogatori, fomentati da miseri personaggi spaventati e paranoici, che si muovono come pedine: ne è un esempio l'insicurezza che mostra Cutts nel voler sempre avere conferma dagli altri della sua identità di donna.
Nella vicenda l'intreccio è talvolta quasi assente e lo svolgimento della trama è affidato piuttosto al dialogo, vicino paradossalmente alla realtà quotidiana e meno invece al contesto teatrale. Il linguaggio serrato pinteriano accentua i personaggi grotteschi e ne sottolinea gli assurdi meccanismi di relazione, fondati esclusivamente sulla mancanza di fiducia. Il dialogo priva i personaggi e lo stesso spettatore della libertà a scapito della “condotta” della società che li circonda. È un linguaggio che fa riflettere lo spettatore attuale, sulla tendenza per esempio delle strutture di potere a promettere realtà che spesso e volentieri sono insostenibili. Marco Plini e il suo “staff medico” sono riusciti a veicolare il messaggio sociale e rivoluzionario – ma in fondo anche politico – pinteriano sull'abuso di potere, e lo spettatore ne sarà rimasto di certo estasiato, ma soprattutto colpito, poiché tuttora siamo immersi in una società colma di apparenze, in cui prevalgono temi come la violenza e l'oppressione. E non è un caso che alla fine della vicenda, in maniera del tutto velata, vengano uccisi – anche se in una scena di massa, ben lontana dal teatro pinteriano – solo i membri del personale medico, cioè coloro che custodiscono il potere e tramandano la prepotenza.
Come sostiene Alessandra Serra, le opere di Pinter sono oggi tra le più rappresentate nei teatri di tutto il mondo. Sarà forse perché la sua concezione rispecchia, dopo poco più di cinquant'anni, la corrente società contemporanea? "There are no hard distinctions between what is real and what is unreal, nor between what is true and what is false. A thing is not necessarily either true or false; it can be both true and false".