Electric performance!
di Michele Olivieri
Per il festival MilanOltre, il dittico di Fabrizio Favale/Le supplici propone una danza che diventa reazione contro le forme accademiche del balletto classico, incorporata da altri differenti linguaggi, qui sottolineata dagli effetti di luce proiettati sulle differenti angolazioni del tessuto scenografico, coreografico e costumistico.
MILANO 8 ottobre 2020 – Lo sposalizio con la natura, genera nella danza di Favale, suggestive gemme. La prima coreografia del dittico, Lute, rappresenta lo scintillare della brace, un pezzo perfetto, pulito, lineare, suadente nel suo linguaggio contemporaneo ma al contempo affacciato su una solida base classica di stampo accademico. La commistione di stile risulta esteticamente rispondente a un criterio di gradevole chiarezza pur nella sua non identificabilità, qui volutamente sottolineata. Una poesia di Enrico Panzacchi recita “O monachine scintillanti e belle che il camin nero inghiotte, volate forse a riveder le stelle?” in omaggio alle scintille prodotte dalla brace ardente – che in Lute vogliamo immaginare siano rispondenti a quelle del nostro essere. Favale è riuscito a raggiungere un grado qualitativo elevato, tale da escludere qualsiasi difetto o correzione, tanto da identificare il pezzo nella sua massima compiutezza, anche grazie a scene, costumi (attraenti le tutine luccicanti) e video effects di First Rose, ai plastici e duttili danzatori Daniele Bianco e Vincenzo Cappuccio, alle musiche di Paul Corley & Sigur Rós. Così lo stesso Fabrizio Favale commenta la sua creazione:“Questo lavoro si spinge in una direzione visiva alterata e sognante. Immerse in uno spazio vuoto e reso scintillante da speciali effetti luce/video, due figure appaiono come esseri non ben identificabili che danzano e costruiscono strani oggetti. L’incertezza permane per tutto il tempo delle loro misteriose azioni. Qualcosa nella loro stessa natura è alterato, come a rivelare mutazioni artificiali: sono interamente umani, ma la loro pelle scintilla come un minerale e trascinano sulle spalle una ora essiccata e misteriosamente colorata da bagni chimici o incroci genetici. La loro perpetua e incessante azione lascia intuire una misteriosa attività da api. Qualcosa di esatto, quasi meccanico, traspare nelle loro azioni nel disegnare traiettorie e geometrie spaziali. Danzano in un linguaggio inventato, che attraversa diversi codici e in definitiva non ne sceglie nessuno. Quasi volesse lanciare nell’etere un messaggio comprensibile a tutti gli animali. O decriptare qualcosa nelle infinite possibilità del dire. Questo lavoro porta lo spettatore nella meditazione di un luogo che non è né qui né là, che arriva nella modalità spettrale con cui arriva la luce di stelle ormai estinte. Inaugura una strada che mescola materiali organici e inorganici, giocando con la morfologia dei danzatori che rilasciano bagliori e scintille. Questo forse è solo il disegno di un piccolo e insensato arabesco. Un enigma che vorremmo dedicare alla memoria di Alan Turing”.
La Sala Shakespeare dell’Elfo Puccini di Milano, nell’appuntamento storico di MilanOltre, è apparsa gremita dalle massime presenze nei limiti delle regole dettate dall’emergenza sanitaria anti-Covid, a dimostrazione che la gente ama il teatro e necessita di un contatto non virtuale con questo rito che si ripete da millenni per assistere alla bellezza in senso lato, e di conseguenza a tutto ciò che è arte, cultura e, perché no, voglia di vivere senza lasciarsi vivere, per nutrirsi al meglio, per esprimere mediante il teatro la propria volontà di esprimere sé stesso sia come individuo che collettività, nel rimando plateale tra espressione, ascolto e comunicazione.
Dopo l’intervallo, il secondo pezzo si presenta con il titolo The Wilderness, dando vita a un immaginario paesaggio a tratti spoglio, architettonico nella costruzione, alieno e mitologico... forse anche epico! Favale così lo descrive: “Lo spettacolo, ponendosi la problematica ottica e percettiva di ciò che vediamo quando guardiamo qualcosa, nel confine sempre incerto fra ciò che è reale e ciò che è sognato, si presenta in rapide e leggere traiettorie danzate, strettamente incrociate come di disegni di volo di rondine, in un instancabile nero ricamo su uno sfondo plumbeo. Qui incontriamo figure enigmatiche in un perpetuo senso del mistero, dell’incertezza. Le danze sono costruite per rendere questo senso del mistero, dove il confine fra ciò che è e ciò che sembra non è esattamente rintracciabile. La tematica è arcaica eppure attualissima: un senso del magico, rispetto alla percezione, ha accompagnato l’uomo fin dagli inizi, e ancora oggi, a dispetto della nostra tecnica, sogno e realtà si scambiano i propri tasselli in un continuo dialogo. Una danza ipnotica e vagamente psichedelica agita da sette danzatori, in movimenti che sembrano accennare al ripetersi di cicli naturali. Qui sono intrecciati in un’unica trama danzante aspetti geometri e ripetitivi, sincronie e canoni come in uno sbocciare di frattali in natura e aspetti aspri, selvatici, umorali, emotivi che rimandano a quelle essenze dell’esperienza poco decifrabili eppure dense di vita. La questione del paesaggio è forse anche la questione dell’incertezza. Il paesaggio, reale o immaginario che sia, implica sempre due questioni: l’una è geometrica, per così dire, dove si ha a che fare con le distanze, le prospettive, ciò che si riesce a percepire o a percorrere. L’altra ha che fare con l’anima, in un dialogo muto fra immagini che si svolge da qualche parte e non sappiamo dove. Per cui non è raro vedere l’Islanda là dove c’è solo un declivio verso il torrente o vedere un estemporaneo raduno di Etruschi là dove dei contadini questionano in lontananza. Eppure mentre cerchiamo di ricucire le incongruenze suggerite da un luogo spettrale, mentre cerchiamo di giustificarne e misurarne le distanze, qualcosa rigoglia e avanza e rinfoltisce e rende impraticabile qualunque luogo che prima aveva una parvenza di familiarità. The Wilderness, viene chiamato altrove: terra selvaggia”.
Questa inedita e seconda performance, in debutto nazionale, necessita maggiore decantazione a confronto della prima, in qualche modo andrebbe svestita e sfoltita per elaborarne meglio la percezione del teatro nella natura e nelle annunciate tredici danze ipnotiche e vagamente psichedeliche. Si ritrova l’ipotesi di ricerca nell’avvicinare le pratiche coreografiche all’analisi degli elementi tipici del rito-spettacolo, individuando nitidamente ciò che oggi si riconosce nel contemporaneo, nelle forme e negli spazi, pur conservando quella radicale differenza che è la cifra del tessuto di Favale. Egli si nutre di più culture ben accomunate da radici direttamente riscontrabili nel suo patrimonio creativo e che lo hanno reso – e lo rendono – istintivo nell’infondere la non dispersione del singolo, pur lasciando gli artisti in scena liberi (apparentemente) di isolarsi nel proprio credo, ma allo stesso tempo appagati da una fede artistica comune, ritrovando la dimensione evocativa e proporzionale che comprende numerose correnti spirituali, psicologiche e sociali. Gli straordinari danzatori Martin Angiuli, Daniele Bianco, Vincenzo Cappuccio, Martina Danieli, Francesco Leone, Mirko Paparusso appaiono come moderni fauni, satiri e silvani, esseri non malvagi, più simili a folletti e adattabili a molteplici ruoli e nel riuscito tributo all’incanto della Serpentine Dance di Loïe Fuller, emblematica pioniera di quella procedura visiva che col tempo ha assunto l’idea di optical art sostenuta da un movimento astratto che ben si confà a Favale (con rimandi a Isadora Duncan e alla Carlson). Una danza, che diventa reazione contro le forme accademiche del balletto classico, incorporata da versioni di ‘altre’ danze, qui sottolineata dagli effetti di luce proiettati sulle differenti angolazioni del tessuto scenografico, coreografico e costumistico, del controsipario e del fondale, sviluppando un nuovo linguaggio, rivelandolo dal suo interno, lasciandolo fuoriuscire intenzione dopo intenzione per farsi largo nell’ordine ritrovato.
Michele Olivieri