L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Serata Stravinskij: Apollon musagète

L'ideal fu sogno

 di Andrea R. G. Pedrotti

Dittico coreografico nel segno di Stravinskij a Verona: il neoclassicismo di Apollon musagète e il mondo fiabesco slavo di L'oiseau de feu meritano un caloroso successo nella lettura di Renato Zanella riallestita da Gaetano Petrosino.

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VERONA, 5 maggio 2016 - Al teatro Filarmonico di Verona è andato in scena quello che possiamo autenticamente definire come un doppio rituale, ossia un rito neoclassico nel corso della prima parte, seguito da un rito ugualmente pagano, ma di natura fiabesca e misterica, tipica delle foreste del nord est Europa, con la sua cupa componente panica a far da cifra caratteristica.

La serata dedicata alle danze di Stravinskij è stata questo, anche se non si deve pensare che diverse nature antropologiche vengano a formare differenti sistemi comunicativi, poiché entrambe sono frutto dell’animale uomo.

Apollon musagète (primo dei due balletti in programma) è perfettamente fedele al testo, nella coreografia di Renato Zanella, ma con numerosi spunti di originalità, anch’essi conformi alla drammaturgia della danza. La nascita di Apollo è preceduta da una bianca figura che nel centro della platea conferisce al direttore d’orchestra il permesso a dare inizio all’accordatura e ai natali del figlio di Zeus. Questo senza orpelli, solo una luce accecante a far d’aurora e una posa del ballerino (negli stessi abiti che saranno del principe in L'Oiseau de feu successivo), d’una statica plasticità, scevra di maniera e tipica di molta statuaria antica. La scena è suddivisa in due semplicissimi elementi: sulla destra delle colonne, simili a quelle che potremmo ritrovare nella Magna Grecia, nelle terre elleniche o nelle isole dell’Egeo. Infatti sono grigie e prive di capitello (il che rende impossibile stabilirne la certa provenienza dorica, ionica o corinzia) ed evocano l’ideale di classicismo che prese piede fra la fine del Settecento e tutto l’Ottocento europeo. Un ideale immaginifico, romantico, quasi etereo, massimamente difforme da quella che fu la realtà. La verità dei fatti, o almeno una rassomiglianza a essa, è posta sulla sinistra con tre colonne dalle forme più regolari e dal pigmento acceso, tipico della varietà cromatiche dei templi all’epoca della costruzione. Questo non richiama solo l’antico, ma figura una realtà opposta alla suggestione ed esse divengono costruzioni futuribili di primo acchito, pur rappresentando una storicità maggiormente filologica.

Nel centro la coreografia sintetizza i due opposti di classico reale e ideale, con un magnifico Pas d'action nel secondo quadro caratterizzato da bellissimi movimenti delle muse e delle Echos, perfetti nel richiamo all’isteria indotta della Pizia, attraverso il preciso studio coreografico della danza rituale delle sacerdotesse condotte sul Monte Parnaso. Parimenti incantevole è il Pas de deux del medesimo quadro fra i bravissimi Mick Zeni (Apollo) e Tersicore (Amaya Ugarteche).

Ottima anche la caratterizzazione delle tre muse Calliope (Alessia Gelmetti), Polimnia (Teresa Strisciulli) e Tersicore (che uscirà vincitrice giustamente dalla disfida nella trama trattandosi di un balletto), fasciate in bei costumi, da amazzone, con un tutù dal cuore insanguinato e palpitante, o con un abito che farebbe bella figura nel fasciare le forme di Artemide.

Ottima la fluidità dei movimenti, che consente di non perdere nemmeno un istante delle vicende narrate. L’apoteosi finale è concepita da Zanella quasi come richiamo alla nascita di Apollo: si apre il sipario sul fondo e un’altra luce accecante illumina il pubblico. Al termine della prima parte della serata è bello riscontrare numerose uscite in proscenio (elegantemente a sipario chiuso) da parte di interpreti salutati da un pubblico festante, più numeroso del solito e caratterizzato dalla presenza di molti attenti giovanissimi, ben più partecipi a questo balletto, anziché in passate rappresentazioni liriche.

Il cast dell’Apollon musagète era completato da Evghenij Kurtsev (Zeus), Elena Barsotti (Leto) e Carmen Diodato (Era). Le Echos erano Pietro Occhio, Marco Fagioli, Luigi Rosario Esposito, Massimo Schettini, Michaela Colino, Alessia Pssari, Fabiana Isoletta, Bianca Grandassi, Cristiano Colangelo, Simone Pergola, Vito Lorusso.

Seconda parte della serata veronese dedicata a L'Oiseau de feu. Qui si potrebbe pensare di assistere a una semplice riproposizione della coreografia che avevamo visto (e apprezzato) in un gremitissimo Teatro Romano di Verona la scorsa estate [leggi la recensione]. Se qualcuno l’avesse supposto si è certamente sbagliato, poiché la rappresentazione in un teatro di tradizione ha reso il celeberrimo balletto di Stravinskij ancor più bello e coinvolgente. Quante volte abbiamo rammentato come la fiaba altro non sia se non una rappresentazione di morte e sentimento, che fosse nella recente Turandot viennese, o nella fresca serata scaligera di quasi un anno fa. Kašej che danza nel giardino incantato, pianificando i suoi propositi negativi, sarà costretto a esser sfinito nella danza, come (in un contesto completamente diverso) in Le Sacre du printemps così da scontare le sue malefatte. Il telo di fondo è dipinto (unica scena) con un acquarello quasi impressionista: ancora i colori accesi della natura (il verde della flora e il rosso del sangue) si mescolano, ma l’atmosfera della sognante immaginazione di materializza tramite (per esempio) l’apparizione del principe Ivan nel giardino, in perfetto ossequio alla linea musicale. Realtà, immaginazione e significati si fondono, nella leggerezza della danza dell’uccello di fuoco (Alessia Gelmetti), catturato da Ivan e generoso nel fornire al principe il mezzo –ossia la piuma- capace di sconfiggere il male. È la grande bellezza delle fiabe russe, che propongono in forma antropomorfa un animale, privo della meschinità dei conflitti umani, nobilitandolo nella forma femminile. Se vogliamo un’inversione dell’idea contenuta nel primo libro della Politica di Aristotele, con la donna (genere più passionale e generoso paragonato a quello maschile), con l’ideale femminile che fa da congiunzione fra l’uomo e l’animale, palesandosi come meno corrotto e più nobile, perlomeno nell’idea di chi scrive, opposta a quella del pensatore greco.

Bellissima anche la seconda e ultima scena, che grazie alla presenza dell’orchestra, rende più efficace e coinvolgente la fiaba.

Ottimi tutti gli interpreti, precisi, eleganti e passionali. Come detto la protagonista era Alessia Gelmetti, mentre il Principe Ivan era interpretato da Antonio Russo, la Principessa da Amaya Ugarteche, Kascej da Pietro Occhio. Gli adepti erano Marco Fagioli, Massimo Schettini, Luigi Rosario Esposito, Vito Lorusso, Cristiano Colangelo e Simone Pergola.

A far da principesse, invece, abbiamo avuto Elena Barsotti, Carmen Diodato, Michaela Colino, Alessia Passari, Bianca Grandassi, Fabiana Isoletta e Martina Claudia Gerbi.

Ottima anche la concertazione del M° Roman Brogli-Sacher, bravo sia nell’impeto sia nel fraseggio più elegiaco, senza perdere mai il controllo dell’orchestra della Fondazione Arena.

Al termine gran successo per tutti e alcuni applausi a scena aperta, compreso il M° Gaetano Petrosino, chiamato a ricevere il meritato tributo in vece del coreografo Renato Zanella. Una bella chiusura della stagione di balletto 2015/2016 della Fondazione Arena, nella speranza che questa possa aver seguito in quella 2016/2017, visti gli evidenti progressi a cui abbiamo assistito negli ultimi anni.


 

 

 
 
 

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