I sovrani di Palmira
di Roberta Pedrotti
G. Rossini
Aureliano in Palmira
Pratt, Spyres, Belkina, Lupinacci, Vitale, Pkhaladze
Orchestra Sinfonica G. Rossini
Coro del Teatro Comunale di Bologna
direttore Will Crutchfield
regia Mario Martone
scene Sergio Tramonti
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
Pesaro, Rossini Opera Festival 2014
2 DVD Arthaus Unitel Classic 109073, 2015
Leggi la recensione della prima a Pesaro, 12/08/2014
VIDEO, Un virtuoso per Aureliano
VIDEO, Martone e Crutchfield su Aureliano in Palmira
VIDEO, Aureliano in Palmira e Il barbiere di Siviglia
Approfondimento: Zenobia regina di Palmira
Quando, all'inizio del secondo atto, il coro intona “Del ciel, ahi! miseri | piombata è l'ira. | Vinta è Zenobia, | Cadde Palmira. | Ceppi e ritorte, | rovina e morte | il fato barbaro | ci preparò!”, con una delle più devastanti tinte funebri trovate da Rossini, un turbamento, pensando all'attualità, prende la gola, inutile negarlo. Ma non è solo la lacerante eternità storica dei tormenti mediorientali a rendere Aureliano in Palmira un'opera vivida e attuale. Classica come il suo soggetto e come il dotto libretto di un giovane Felice Romani, la partitura non per nulla chiude e corona l'anno d'oro dell'affermazione rossiniana, quel 1813 che aveva già visto nascere, si parva licet, Il signor Bruschino, Tancredi e L'italiana in Algeri. È, dunque, un lavoro maturo, ma anche pervaso dal fremito creativo di un autore giovane, pieno d'idee e di energia, pronto a gettarsi in un agone altamente competitivo e costellato di tendenze contrastanti, stimoli internazionali, innovazioni e nostalgie. La forma impeccabile raggiunta, allora, comincia a ribollire, alcune soluzioni armoniche e strumentali si fanno più ardite, emerge lo studio del Tedeschino e s'indirizza verso personalissimi frutti, i numeri stessi si plasmano e si ampliano senza ancora scardinare l'ordine costituito, ma dimostrando bene come il ventunenne pesarese abbia le idee chiare per codificare e destrutturare, restaurare e innovare a suo piacere, senza farsi tedesco o romantico come qualcuno vorrebbe, né conservatore e codino come altri lo hanno dipinto. Il suo illuminismo ha una lucidità che guarda già oltre, un'inquietudine che troverà talora affinità con i romantici, ma non identità.
Molto atteso era, dunque, il debutto dell'Aureliano a Pesaro, ma dilatata nella speranza, finora delusa, di rinvenire l'autografo, oltre che per l'impegno della riscoperta di un titolo rimasto poco noto ed eseguito, anche per proporzioni e difficoltà, che occupa tuttavia una posizione chiave nella produzione rossiniana, come conferma la quantità di musica che l'autore trasfuse poi nell'Elisabetta regina d'Inghilterra del 1815, debutto napoletano da cui dipendevano le sue sorti alla corte borbonica.
La responsabilità del recupero è andata alla bacchetta di Will Crutchfield, che ha curato anche l'edizione critica della partitura. Là dove, è inutile negarlo, non sempre arriva il direttore arriva, dunque, il musicologo. Sul podio, infatti, è attento ma privo di quel mordente nel fraseggio capace di catalizzare l'attenzione e il dramma, non sempre autorevole nel gestire un coro del Comunale di Bologna che abbiamo inteso in forma migliore e un'Orchestra Sinfonica G. Rossini che schierava validissimi musicisti ma non poteva vantare la compattezza di altre formazioni di più consolidata attività. La consapevolezza delle peculiarità del testo, dei suoi dettagli preziosi, della ricollocazione drammatica di temi e interi numeri che siamo abituati ad associare a tutt'altri contesti (per tutte, la sinfonia passata poi all'Elisabetta e al Barbiere) è però lucidissima, come la scienza della costruzione della frase musicale, della variazione, dello stile e della vocalità. Tutti elementi intellettuali che emergono in filigrana e concorrono alle felici prove degli interpreti, anche se nel complesso non possiamo parlare di una concertazione impeccabile, né, tantomeno, memorabile.
La ripresa video di Tiziano Mancini rende fedelmente lo spettacolo di Mario Martone, nel bene e nel male, nel poco e nel troppo. Nel poco, giacché è sempre minimalista, al punto da apparire una forma semiscenica o un concerto in costume mascherato da allestimento completo; nel troppo perché questo minimalismo viene declinato secondo troppe strade diverse, anche felici, ma non sempre coerenti: dall'interessante teoria di velari che suggeriscono tende arabeggianti e labirinti trasparenti, alla suggestione metateatrale del gruppo del continuo (con la teatralità magnetica della cembalista Lucy Tucker Yates, non solo ottima musicista) come presenza attiva sul palco, al bozzettismo da presepe delle caprette in carne e ossa, a sporcare il bel coro pastorale del secondo atto, all'eccesso didascalico (peraltro illeggibile sullo schermo) della proiezione di un riassunto finale sul vero epilogo della campagna palmirena di Aureliano. Gli abiti classicissimi disegnati da Ursula Patzak sono degni della meritata fama della costumista, Sergio Tramonti presta la sua esperienza di scenografo alle sollecitazioni di Martone secondo i mezzi disponibili. Il bene, che pure non manca, sta nella recitazione dei singoli, nella credibilità e nell'articolazione dei rapporti fra i personaggi, tutti scenicamente ben delineati, coerenti anche in una costruzione drammaturgica spesso in difetto di coerenza.
L'azione si regge tutta sul rapporto e sullo scontro fra i due regnanti, le due grandi figure carismatice dell'opera, Zenobia e Aureliano. Al centro c'è Arsace, generale e amante della regina, ostaggio e rivale dell'imperatore (ma, invero, l'infatuazione del romano per l'energica siriana rimane tema del tutto marginale), di nobili sentimenti, ardori eroici e teneri abbandoni, ma poca iniziativa determinante per l'evoluzione della trama, giacché ogni sua prova militare sembra destinata al fallimento. Il suo peso è tutto musicale, nei numeri meravigliosi riservati in ossequio al primo interprete, l'ultimo grande castrato Giovanni Battista Velluti, cui era offerta l'occasione di dispiegare i più vari e begli affetti nella tenerezza e nello slancio guerriero, con una memorabile scena di catene. E non sarà inutile ricordare, nell'evoluzione del rapporto fra sessi, registri vocali e ruoli teatrali, che al re, sposo, padre e condottiero Ciro, conquistatore di Babilonia, Rossini aveva riservato la tessitura contraltile e le affascinanti fattezze della musa Maria Marcolini, mentre l'ultimo erede di Farinelli impugnerà la spada di un giovane principe siriano solo spinto da teneri, adolescenziali abbandoni amorosi. Il registro vocale si va identificando con la gioventù più che con l'eroismo, o, forse, quell'identificazione dovrebbe essere più sfumata, sia che l'interprete, fuori scena, portasse gonna o pantaloni.
Qui a vestire i panni di Arsace è una minuta fanciulla splendidamente a suo agio nella recitazione, paradossalmente ideale nella sua amorosa devozione verso l'imponente Zenobia incarnata da Jessica Pratt. Lena Belkina è perfetta a vedersi quanto educata e attendibile nel canto. La parte è però intensa, varia, faticosa e impegnativa dalla prima all'ultima nota e, data anche la giovane età, non stupisce un certo affanno, un calo di tensione a dispetto dell'impegno nella gran scena del secondo atto, uno smalto virtuosistico puntuale ma non prezioso, spavaldo e splendente come si vorrebbe in un ruolo come questo.
Inevitabile che l'opera, dopo un'Introduzione che anche in teatro ci sembrò un po' opaca, prenda quota quando Aureliano giunge in Palmira e si accende lo scontro fra i due sovrani e condottieri. Michael Spyres è in forma, anche fisica, splendida: un imperatore prestante, sicuro si sé, anche ironico, ma sempre con forbita misura, un uomo d'azione, quale fu il vero Aureliano, nonché politico colto e scaltrito. Così il gesto e lo sguardo corrispondono a un canto in cui l'autorità e la sottigliezza dialettica sono tutt'uno con un'estensione abnorme, ben resa secondo il gusto dell'epoca con scarti timbrici spettacolari, con una coloratura ardita e granitica, affatto diversa dal tirannico isterismo del Baldassare così splendidamente intepretato da Spyres sempre a Pesaro nel Ciro in Babilonia. Là le stesse armi accompagnavano il delirio di un despota, qui sbalzano la statura di un vincitore spregiudicato anche nell'uso dell'arma sottile della clemenza.
Parimenti splendida è la Zenobia di Jessica Pratt, che, se non fosse per l'incarnato alabastrino, le chiome bionde e gli occhi cerulei, sembrerebbe la reincarnazione della maestosa condottiera palmirena, bruna e di pelle olivastra. Regina e guerriera, prima ancora che amante, sicché, dopo i teneri abbandoni e le propositi bellicosi dell'introduzione, è dall'ambasciata nell'accampamento romano che mostra veramente tutto il suo valore, con recitativi dosati con intenzione perfetta, nobiltà e dignitosa sprezzatura nel gesto scenico e musicale, coloratura perlacea e sempre espressiva, come nella cabaletta “Ah! non piangete, o sventurati”, ben differenziata fra la retorica persuasiva della prima esposizione, rivolta ai prigionieri, e il momento di dubbio e privato sconforto della ripresa, cantata in solitudine. L'abbandono nei duetti amorosi è morbidamente fiorito e legato, lo slancio negli scontri politici, l'animo indomito anche da prigioniera dimostrano tutta l'autorità che un soprano cosiddetto leggero può dispiegare nel repertorio primo ottocentesco quando ne sappia rendere adeguatamente spirito e stile.
Raffaella Lupinacci sa dare, da parte sua, personalità a un'Emilia che fortunatamente vediamo parte del dramma e non figuretta decorativa sullo sfondo. Così Sergio Vitale offre un'energia presenza a Licinio, il cui ruolo si esaurirebbe in poche battute e, nonostante la partecipazione al grande duetto fra Zenobia e Aureliano (che di fatto con Emilia e Licinio si chiude come quartetto) rischierebbe di passar inosservato. Dimitri Pkhaladze si disimpegna senza essere indimenticabile nella non indimenticabile aria del Gran sacerdote. Dempsey Rivera, Oraspe, è un po' più legnoso, ma è anche il meno esperto.
I sottotitoli dell'opera sono in italiano, inglese, tedesco, francese, coreano e giapponese, per le interviste del bonus ci si deve accontentare di inglese e tedesco (si consoleranno i compatrioti non poliglotti con Martone, il sovrintendente Mariotti e il direttore artistico Zedda che si esprimono, sottotitolati, in lingua madre). La ripresa audio e video è di qualità e il booklet incluso forte di una dettagliatissima lista delle tracce (cosa rara!).