L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Labirinto di belcanto

 di Roberta Pedrotti

G. Donizetti

Il castello di Kenilworth

Pratt, Remigio, Anduaga, Pop

Riccardo Frizza, direttore

Maria Pilar Pérez Aspa, regia

orchestra e coro Donizetti Opera

Bergamo, Teatro Sociale novembre/dicembre 2018

DVD Dynamic 37834, 2019

Leggi la recensione della prima in teatro: Bergamo, Il castello di Kenilworth, 24/11/2018

Due primedonne a spartirsi onori e oneri dell'amore per lo stesso uomo; due tenori, il conteso oggetto del desiderio e un innamorato respinto che medita vendetta. Con qualche variante nel numero, nel registro e nei rapporti sociali o familiari, lo schema si ritrova spesso nell'opera italiana del primo Ottocento, fra Rossini e il Belcanto, fino a lambire le rivalità di Eboli ed Elisabetta, Aida e Amneris, Gioconda e Laura. Soprattutto, è lo schema prediletto per esaltare le vicende romanzesche di Elisabetta I d'Inghilterra, chiamata a sacrificare nobilmente i sentimenti privati per la ragion di stato: ne aveva scritto Rossini al suo esordio napoletano, con un'opera che doveva anche festeggiare la restaurazione borbonica dopo la parentesi bonapartista, e ne scriverà più volte Donizetti, la prima proprio sulle scene partenopee con un soggetto tratto a Walter Scott. Il castello di Kenilworth è il primo incontro fra i Tudor e il compositore bergamasco, incontro fecondo e fortunato, ma non semplice, ché l'opera, anche per la distribuzione che sta diventando anacronistica, aveva avuto un esordio travagliato, con successo tuttavia crescente, ma non tale da consolidarlo in repertorio, nemmeno con la stesura di una versione con il tenore respinto convertito in baritono per facilitarne la circolazione. Così, Il castello di Kenilworth si eclissa, riappare occasionalmente la rielaborazione in Elisabetta al castello di Kenilworth.

È un peccato, perché l'opera è bella, esigente, legata sicuramente ai modelli rossiniani, ma tutt'altro che passiva epigona. È un peccato, perché lo schema drammaturgico si presta a interessanti sviluppi psicologici, con  un protagonista maschile, Leicester, ambiguo, ambizioso, incapace di agire e reagire fra l'amore che pur prova per la sposa e l'attrazione per ciò che la relazione con la regina può offrirgli; un deuteragonista innamorato ma anche risoluto ad attentare ripetutamente alla vita della donna bramata; una giovane dal carattere volitivo e risoluto trasformata in vittima da un labirinto di minacce e reticenze; una regina precipitata in questo nido d'inganni che infrange le sue illusioni d'amore.

Di certo, si tratta di un'opera che non ammette compromessi nel canto ed esige fuoriclasse, che il Festival Donizetti Opera s'impegna prontamente a schierare sulla scena. Jessica Pratt e Carmela Remigio sono una coppia in tutto e per tutto complementare, perfettamente assortita. Imponente, incarnato di porcellana e chioma biondo rame, il soprano australiano si trova perfettamente a suo agio nel gesto regale, nello sguardo imperioso che si traduce anche in un canto lucente anche in una scrittura come questa, frastagliata nella coloratura, vasta nella tessitura. La resa strettamente vocale cresce nel corso della recita, ma è soprattutto il personaggio a essere sempre ben a fuoco nell'estasi e nell'ansioso tormento costretti dal contegno regale. La mora Amelia di Carmela Remigio può mostrare le sue passioni con maggior schiettezza, la sua ferma volontà, le sue rivendicazioni si esprimono con vigore nello scontro con lo spasimante violento o lo sfuggente consorte, pur lasciando trasparire, con vibrante espressione dolcissimi ripiegamenti, anche fragilità e smarrimento di fronte al diabolico e incomprensibile meccanismo che l'attanaglia. Pratt e Remigio si spartiscono il trono della primadonna perfettamente alla pari, come decreta l'abbraccio finale al proscenio: entrambe hanno pieno controllo e piena consapevolezza della propria vocalità e amministrano i propri mezzi, e perfino le eventuali difficoltà, sempre al servizio della musica e del personaggio con tale gusto, dedizione, espressione da conquistare senza riserve. 

Appena ventitreenne, Xabier Anduaga è un fuoriclasse in potenza. La voce è, anche e soprattutto in teatro, fra le più belle e generose udite negli ultimi tempi, il musicista si avverte ben praparato, anche se l'anagrafe lascia pensare che il meglio possa e debba ancora venire. E, tuttavia, fa già ben intendere che la parte improba scritta per Giovanni David e aperta da un'interminabile cavatina con doppia cabaletta non è risolta in virtù solo di giovinezza e natura, ma di un'organizzazione vocale ben consolidata. E proprio la sua aria da ragazzino, fra lo spavaldo e l'ingenuo, calza a pennello a Leicester, alla sua immaturità, al suo egoismo, al suo narcisismo incoerente e irresoluto che finisce, più che per disgustare, quasi per intenerire. Con quella voce splendida e il viso pulito, è facile credere che Amelia ed Elisabetta se ne siano innamorate, ma anche che sia rimasto in qualche modo prigioniero di quella sua stessa influenza che cuore e ambizione non sanno ancora gestire. Per contrasto, Stefan Pop impone il vigore minaccioso di una tessitura baritenorile che non lo mette certo in difficoltà, anzi, offre a Warney la statura oscura di un'altra forma di amore malato, convertita dalla supplice brama di possesso del duetto del primo atto all'ossessione omicida che esplode nella grande aria del secondo. Se il tenore amato è un antieroe, il tenore antagonista lo compensa in risolutezza, ma tutta volta a trasformare diabolicamente l'eros in thanatos, cosa che il canto energico di Pop, ben temprato anche nell'appassionata profferta "amami, o cara", rende alla perfezione. 

L'equilibrio di voci e personalità in parti di grande difficoltà tecnica e psicologica è nelle salde mani di Riccardo Frizza, che ha messo a frutto la sua esperienza belcantistica maturando piglio e sensibilità d'interprete, capace di dosare tempi e sonorità favorevoli al canto, di garantire l'esattezza dell'esecuzione e la consapevoleza stilistica, ma anche di sbalzare con gusto moderno accenti, dinamiche, agogiche in una fluente e incisiva teatralità. Anche i complessi appositamente costituiti per il festival bergamasco contribuiscono a un'esecuzione degna della riscoperta di un titolo tanto complesso e impegnativo.

Paga pegno, invece, dalla ripresa video la regia di Maria Pilar Pérez Aspa, che in teatro pareva più che altro essenziale e innocua. L'occhio spietato della telecamera, invece, costringe a osservare dettagli e controscene da cui traspare una certa goffaggine, data forse anche dall'inesperienza, che non riesce a mettere a frutto il potenziale labirinto psicologico del Castello. Per contro, un cast in cui tutti gli interpreti hanno i volti e gli sguardi, oltre alle voci, giusti per incidere nelle rispettive parti si fa apprezzare in video come in sala e compensa le mancanze della messa in scena.

Come già notato in occasione della prima bergamasca, ci auguriamo che la rinascita del Castello e della teatralità anche inasprita del suo belcanto con una compagnia e una direzione di primo livello possa essere il migliore auspicio per il cammino futuro del Festival Donizetti Opera.


 

 

 
 
 

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