Prigionieri del tempo, liberi nel canto
di Roberta Pedrotti
V. Bellini
I Capuleti e i Montecchi
Didonato, Kulchynska, Berheim, Lorenzi, Botnarciuc, Puchalski
direttore Fabio Luisi
regia Christof Loy
Zurigo, Opernhaus, giugno 2015
DVD Accentus Music ACC 20353, 2016
Ogni tempo legge l'arte, per forza di cose, secondo il proprio metro e la propria prospettiva. Così, capita che alcune opere non si trovino in sintonia con i parametri di un'epoca e soffrano pregiudizi che, magari latenti, si trascinano oltre misura. Quando Bellini scrive I Capuleti e i Montecchi, Shakespeare è di gran moda in tutta Europa, la sua riscoperta è ormai ben radicata, anche se in Italia si dovrà aspettare il Macbeth verdiano - vale a dire ancora diciassette anni - per vederlo trionfare sulle scene operistiche. Così, un'opera che con Shakespeare in realtà non ha nulla a che fare, ispirata com'è ad altre fonti e convenzioni, patisce nella critica internazionale del tempo il confronto con la tragedia inglese, più ancora di quanto non era avvenuto con l'Otello rossiniano, che pure con il Bardo non ha granché a che fare ma il cui libretto fece storcere parecchio il naso a Stendhal. Per di più, gli eroi en travesti stavano, nel gusto corrente, cedendo il passo ai tenori e un Romeo mezzosoprano e, fuor di finzione scenica, donna proprio non andava giù a tante penne influenti e affilate - Berlioz in primis. Eppure, quel che un tempo fu ritenuto un limite e una zavorra, può diventare un punto di forza nello sguardo dell'interprete. Al di là della prassi ancor viva nel 1830, seppur prossima al tramonto, dell'eroe amoroso en travesti, la vocalità di Romeo, la sua fusione e prossimità con quella di Giulietta, la loro alterità rispetto a un panorama quasi esclusivo di voci virili - il coro femminile ha interventi davvero minimi rispetto a quello maschile - costituisce il cardine della drammaturgia musicale dell'opera.
Ben lo intende il regista Cristof Loy, che riflette su questa affinità e alterità degli amanti concentrandosi su altri due espetti fondamentali della musica e del testo: da un lato l'ostinazione irrazionale di Giulietta all'immobilità, la sua incapacità di lasciare la casa di famiglia (" Per me la terra | è ristretta in queste porte: | qui mi annoda, qui mi serra | un poter d'amor più forte."), l'attaccamento quasi patologico al padre-padrone da cui implora affetto ("Ah! non poss'io partire | priva del tuo perdono... | presso alla tomba io sono... | dammi un amplesso almen."); dall'altro la fascinazione quasi estatica per la morte, soprattutto in Romeo, quella pura bellezza del canto, quella sublime sospensione, quasi l'unica espressione avvicinabile a un'idea, seppure illanguidita, di felicità quando si parli di cessare le sofferenze terrene.
Eccoci allora in un tempo immobile di cui Giulietta è prigioniera, aggrappata al gesto ossessivo di accarezzarsi una ciocca di capelli, da quando, bambina, il giorno della sua prima comunione, vede la strage della famiglia e dell'amato fratello, da quando, bambina, era abusata da padre, un patriarca-padrino in tutto simile a Don Vito Corleone, mentre i nemici Montecchi - eternamente sporchi del sangue dei Capuleti - sembrano una delle bande di Gangs of New York di Scorsese. L'abito bianco della bimba è lo stesso della giovane sposa, è lo stesso di una Giulietta ormai anziana ancora intrappolata nella casa un tempo lussuosa in decadenza. Perché Giulietta è uccisa nell'anima, ma esaudisce la preghiera di Romeo "Vivi... vivi e vien talora | sul mio sasso a lagrimar", resta fedele al "poter d'amor più forte", resta per sempre in stato catatonico in quella casa, nel momento della strage, dell'abuso, della morte di tutti coloro che ha amato, in un tempo che sembra ciclico, come la scena rotante che ci mostra i vari ambienti della casa come un labirinto da cui è impossibile uscire, le cui porte e finestre celano sempre un'ombra che osserva, un segreto non detto, un incubo rimosso. Qui la sintonia delle anime di Romeo e Giulietta esplicitata nelle loro voci così simili e così diverse da tutto l'ambiente circostante (dove anche le donne invitate alle nozze di Giulietta e Tebaldo sono uomini superbamente travestiti, in un eterno e inquietante ritorno degli stessi volti) è incarnata anche da un'emblematica figura muta definita "il compagno". Attore e ballerino, Gieorgij Puchalski è divinamente androgino, magnetica incarnazione di Ermafrodito, per lo più in abito simile a quello di Romeo, ma nel finale primo - quando anche parte del coro di affiliati al clan Capuleti prende forme muliebri - in elegante abito da sera femminile. Lui è il trait-d'union fra gli amanti, ma è anche il monito oscuro del dramma, è l'anelito di morte di un Romeo lacerato fra l'impulso distruttivo e autodistruttivo e la ricerca di pace e d'amore, è il ricordo dei traumi di Giulietta che segna ogni varco, porta o finestra, è colui che porge il veleno, è colui che estrae, pulisce, occulta la pistola che ha compiuto le stragi. Maschio e femmina, destino e memoria, silenzioso testimone del non detto, Puchalski è il cardine ambiguo di uno spettacolo magnetico, tutto giocato su sguardi e piccoli gesti, su un lavoro minuziosissimo sul testo e la musica.
Ecco allora che benissimo ne intende il senso profondo Fabio Luisi, con la sua concertazione così drammatica e pure sospesa, onirica, folle e dolorosa nella pura e semplice cura del senso teatrale della melodia belliniana sulla parola. E tutto si gode d'un fiato, con la naturalezza la logicità che deve avere l'espressione del teatro musicale anche nel suo presupposto assurdo. Proprio perché non si vive recitando, non si vive cantando, il recitar cantando sulla scena inventa un vero eterno. Esattamente come quel tempo interiore insito nella melodia ed esplicitato da Loy nel suo allestimento. E di questo recitar belcantando è maestra Joyce Didonato, Romeo straordinariamente toccante nella stilizzazione con cui distilla il dolore, lo sublima in un amore che va oltre la morte, che s'identifica con la morte, con la dissoluzione, e che dunque non avrebbe senso se non comprendesse anche trasporti passionali trepidi e ardenti come nell'appello a Giulietta "Sì, fuggire: a noi non resta | altro scampo in danno estremo". Perfettamente complementare risulta la morbidezza di Olga Kulchynska, tanto dolce nel canto quanto eloquente nell'espressione, nella parola e nello sguardo, vittima disperata e pure aggrappata alla sua stessa prigione. Un piccolo capolavoro è anche il Tebaldo di Benjamin Berheim, nel 2015 non ancora l'astro nascente e splendente ben noto ai pubblici internazionali: anche nel suo caso il cantar bene, con dizione chiara, fraseggio pulito, emissione ben a fuoco in tutta la tessitura non è che uno strumento al servizio dell'interprete, del teatro. Al servizio di un giovanotto innamorato che si mette a disposizione del Padrino come sicario per poterne amare la figlia (e non sa che il boss semmai lo vede come un comodo genero tuttofare a cui affidare la ragazza di cui aveva abusato nell'infanzia), un giovanotto che, ammesso nel clan, assume una sicumera di facciata, fa smorfie arroganti, ma resta fragilissimo e crolla alla fine nel confronto con Romeo. Nondimeno, Roberto Lorenzi coglie l'occasione di sviluppare ulteriormente la complicità di Lorenzo con gli sventurati amanti: lui, da uomo di fiducia e medico della "famiglia", è a conoscenza dei comportamenti illeciti del padre verso la figlia, sua paziente fin da bambina; osserva, capisce, tace, il suo piano di redenzione fallisce, forse troppo timido e ossequiente alla logica omertosa del non detto, nel tempo sospeso e inesorabile da cui non si può sfuggire. Alexei Botnarciuc, da parte sua, veste con straordinaria disinvoltura il suo trucco da Marlon Brando, è freddo e distaccato come deve essere; non meno straordinario è il coro, cui va una menzione d'onore speciale per l'attitudine teatrale.
Il cofanetto contiene belle interviste a regista, scenografo e concertatore,oltre a un saggio di Anselm Gerhard, a corollario di uno spettacolo da vedere, rivedere, pensare e ripensare, splendido esempio di intelligente teatro musicale fedele all'opera, vivo nel presente.