Nella bacchetta di Liss
di Roberta Pedrotti
Nuova conferma delle qualità di Dmitri Liss, fra i più graditi ospiti sul podio bolognese per un concerto dedicato a Dvořák, Strauss e Čajkovskij.
BOLOGNA, 4 marzo 2016 - Primo concerto dell'anno, per la stagione sinfonica del Comunale, nella consueta sede del Manzoni dopo due appuntamenti nella sala del Bibiena e successo garantito dal gradito ritorno sul podio di Dmitri Liss, uno dei migliori direttori con i quali la fondazione lirica felsinea possa vantare, ormai, una regolare collaborazione.
Liss è bravo, bravissimo e lo conferma una volta di più spronando l'orchestra – ottima per qualità specifica ma facilmente offuscata da bacchette mediocri – ai migliori risultati per precisione, duttilità dinamica, agogica, coloristica, articolazione metrica e ritmica. Insomma, ancora una volta, con Liss sul podio, il concerto è una gioia, ci rinfranca la sicurezza e l'efficacia dell'orchestra, ci godiamo una resa sonora e tecnica di tutto rispetto nel panorama strumentale delle nostre fondazioni liriche.
Naturalmente, non ci si ferma al plauso edonistico per un paio d'ore di musica ben eseguita, ché il nostro Dmitri non è solo un maestro autorevole e preparato, è anche un musicista acuto e profondo, capace di analizzare le partiture e sintetizzare le letture con una personalità mai fine a se stessa, con una coerenza e una chiarezza ricca di spunti di riflessione e dettagli intriganti.
Il programma si apre con Holoubeck (La colomba selvatica) di Dvořák, poema sinfonico di nemmeno venti minuti nel quale si articola la vicenda di una giovane vedova uxoricida che convola a nuove nozze, ma, travolta dai rimorsi risvegliati dal canto di una colomba, finirà per suicidarsi in preda al delirio. La partitura fu diretta al debutto a Brno nel 1998 da Janáček e, un anno dopo, a Vienna da Mahler, due coincidenze non di poco conto se si pensa che l'humus musicale e sociale è esattamente il medesimo da cui trarranno linfa i capolavori del primo, così come il soggetto potrebbe essere tranquillamente quello di una sua opera. Parimenti l'ascolto della marcia funebre iniziale desta qualche brivido riconoscendo lo stesso sostrato da cui Mahler svilupperà le sue, innervandole di ben altri turbamenti e ironie, intrecciando queste radici con quelle ebraiche.
Liss, saggiamente, non gioca all'inseguimento delle anticipazioni e delle eredità, non suggerisce retaggi e ispirazioni, ma controlla con sapiente lirismo l'aroma caratteristico della partitura e il suo tono di tragica elegia lasciando sottintesa ogni possibile riflessione: il nostro senno di poi non interferisce con il valore intrinseco della partitura, ma un'interpretazione tanto lucida lo stimola a valutarla come elemento di un fecondo percorso storico.
Completa la prima parte un altro poema sinfonico, il Don Juan di Strauss, una metafora sessuale tanto esplicita (quegli ultimi accordi dopo il crescendo finale sono ben più che allusivi) quanto elegante nella bacchetta di Liss, che imprime un'energia straordinaria e l'ancor più straordinaria sensazione di saper guardare nella più recondita profondità della partitura, articolandone ogni dettaglio e ogni perturbante significato nascosto, fra languidi scoramenti, ansioso Streben faustiano, travolgente concupiscenza d'azione.
Dopo l'intervallo, si chiude in bellezza con Čajkovskij e la sua Suite n. 3 in Sol minore op. 55, inquieto lavoro della piena maturità dell'autore, che si spegnerà solo otto anni dopo la prima esecuzione. La libertà formale permette di dar voce meglio di una Sinfonia a turbamenti, abbandoni, aneliti che Liss, di formazione moscovita, legge e anima con uno sguardo privilegiato, come se questa musica, fuor di retorica, fosse parte del suo DNA. Non ha bisogno, dunque, di addolcirsi mollemente nel lirismo, né di compiacersi nello scintillare esuberante dello Scherzo e delle ultime variazioni, dipanando piuttosto il discorso con una lucidità e un controllo, un'eloquenza e una fluidità che ci permettono di perderci nelle contraddizioni e nei tormenti di Pëtr Il'ič. Il Valse mélanconique risulta, così, ipnotico, pur nell'evidente acutissima razionalità con cui la bacchetta lo conduce; le variazioni si concatenano in una miriade di sottilissimi sottintesi, di allusioni, mutamenti psicologici e intrecci timbrici e tematici da travolgere non per esuberante crescendo, ma per profondità di comprensione. Insomma, per il lavoro di un grande musicista che dà sempre la sensazione di conficcare la sua bacchetta fra le note là dove non avremmo immaginato si potesse arrivare.
Nulla che voglia colpirci con un tratto eclatante, semplicemente l'onestà di un direttore che conosce alla perfezione gli strumenti del suo mestiere, di un musicista colto, intelligente, dall'intuito sottile e penetrante. Difatti il pubblico, al termine del concerto, non accenna ad alzarsi e continua ad applaudire con compatta perseveranza per lunghi minuti, richiamando più volte il maestro sul podio (e lui più volte saluta e ringrazia le prime parti, in particolare il primo violino, cui spetta un elogio particolare per gli interventi solistici in Čajkovskij) finché l'orchestra non accenna ad abbandonare i propri posti. Dunque è proprio finita, ma ci auguriamo di rivedere presto Liss a Bologna, magari, chissà, anche per un'opera.