L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Beatrice Rana in concerto a Bologna

La stella di Beatrice

  di Roberta Pedrotti

 

Per la prima volta ospite di Musica Insieme, Beatrice Rana si impone incontestabilmente, e a soli ventitré anni, come un autentico astro  del firmamento pianistico attuale.

BOLOGNA, 4 aprile 2016 - Tre anni son passati. Non è necessario averli contati come Cio Cio San, ma è difficile non rammentare quando Beatrice Rana era una ventenne di belle speranze al debutto bolognese nel festival Pianofortissimo e attorno a lei già si mormorava con insistenza di un talento che avrebbe fatto molto parlare di sé in futuro. Ed eccola infatti tornare all'ombra delle Due Torri con tutti gli onori, approdando nello stesso cartellone di Musica Insieme in cui spicca, fra gli altri, anche il nome di Arcadi Volodos. Una soddisfazione pienamente meritata.

Elegante in un bell'abito nero pantalone, guadagna il pianoforte al centro del palco del Manzoni con passo spedito, non si perde in convenevoli e va dritta al punto, attaccando subito un programma che potrebbe esporla al rischio di un generico eclettismo di facciata: Bach, Debussy, Chopin, Ravel. Ma Beatrice Rana ha dalla sua una tecnica saldissima, che metterebbe in crisi Beckmesser alla ricerca di un qualche difetto, e ha l'intelligenza per farla scordare senza trasformare il concerto in una vetrina di virtuosismi vari.

Ecco una perfetta articolazione di mano destra e sinistra, ecco il peso calibrato nel tocco, ecco il legato, le gradazioni dinamiche, il movimento dalla spalla alla punta delle dita, tutto talmente netto, preciso, naturale da apparire innato. E non un campionario da manuale di tecnica pianistica, bensì la base per una maturità artistica e musicale davvero sorprendente in un'interprete di soli ventitré anni, capace di aderire allo stile di ciascun autore conferendo il giusto colore, dosando sonorità e colori con proprietà e tessendo, parimenti, una solida trina di richiami fra passato e presente.

Bach sta alla base di tutto, nella sua astrazione di musica assoluta capace di passare fra diverse tastiere fino a voci affatto diverse. La Partita n. 2 in do minore BWV 826 scorre con una chiarezza e una misura che non lasciano indifferenti, con un gusto nello sviluppare la dialettica dei tempi di danza che è già la cifra della pianista di classe superiore. Il carattere astratto, in nulla descrittivo o narrativo, si rinnova con i richiami alle suite antiche (il secondo tempo, Sarabande, e il terzo, Toccata) in Pour le piano di Debussy. Il fraseggio cristallino della Rana fa risplendere passaggi che paiono chiaroveggenti, in cui le armonie, l'inafferrabile perlage e l'affermazione percussiva disegnano già sagome novecentesche, affini ai futuri sviluppi del pianismo classico jazz e, pure, così squisitamente peculiari, autosufficienti nel loro intrinseco valore.

Nella seconda parte un monumento dal fascino ambiguo come la Sonata n. 2 in si bemolle maggiore op. 35 di Chopin rinnova questo senso d'autosufficienza di una composizione libera da ogni riferimento concreto, da ogni possibile concessione al mero gusto della perfomance. Personale al punto d'essere intima, distillata al grado estremo. Sicuramente un brano come questo rientra in quella rosa di capolavori che un pianista non cesserà mai, finché potrà muovere le dita, di pensare e ripensare, suonare e risuonare; ciò detto, e detto che per fortuna questo prodigio della tastiera che risponde al nome di Beatrice Rana avrà ancora tanti anni e tante occasioni per esplorare tutte le pieghe della Sonata chopiniana, non si può non rimanere impressionati dalla coerenza, dall'intelligenza e dalla lucidità con cui ne abbraccia i quattro movimenti.

Il capolavoro è, però, forse nel brano più breve del programma, nella versione pianistica della Valse di Ravel posta in chiusura. Tutto un gioco di colori inebrianti e ipnotici fra il rifulgere di schegge gioiose di Parigi e di Vienna, in lampi di Strauss (quelli austriaci ça va sans dire) immersi in un'atmosfera allucinata, in una foschia torbida che distorce colori e confini in un mondo malato fra decadentismo ed espressionismo. Sempre senza perdere leggerezza. Una dozzina di minuti da ascoltare col fiato sorpreso e la bocca aperta, abbozzando un sorriso non senza un fremito inquieto.

Chapeau, di cuore, mentre parte il bis. Ancora Bach, ritorno alle origini intrecciando con sapienza innata e pulizia assoluta mano destra e sinistra, centellinando le dinamiche per non tradire il '700 e non mortificare né l'epoca né lo strumento offertole dai posteri. Lasciando, soprattutto, la sensazione indelebile d'aver ritrovato nell'astro nascente di solo pochi anni fa una stella di prima grandezza destinata a risplendere per molti, molti anni nei più alti cieli del pianoforte.


 

 

 
 
 

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