Umano, troppo umano
di Stefano Ceccarelli
L’ultimo concerto del maestro Antonio Pappano all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è incentrato su un umanesimo musicale e sociale: l’Accademia dà il suo sostegno all’associazione Susan G. Komen Italia, che si occupa della lotta e della prevenzione ai tumori al seno, grazie a una raccolta fondi. Improntato a un umanesimo còlto nei suoi aspetti personali e sacri, il concerto vede la prima esecuzione della nuova versione del poema L’Aurora, probabilmente del compositore umbro Riccardo Panfili (la première s’ebbe, sempre per la direzione di Pappano, al Teatro alla Scala nel 2014), la Symphonie de Psaumes di Igor Stravinskij e la Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64 di Pëtr Il'ič Čajkovskij, struggente capolavoro di un animo rassegnato.
ROMA, 4 aprile 2016 – A inizio concerto, il Maestro Antonio Pappano rammenta che la serata è dedicata alla Susan G. Komen Italia e ha un fine benefico: quello di aiutare a finanziare la ricerca nel campo del cancro al seno, e di dare assistenza e sostegno alle donne che ne soffrono. Indi giunge a considerazioni eminentemente musicologiche, definendo il programma del concerto certo ragionevolmente insolito per la disposizione dei brani, ma imperniato chiaramente sul senso di umanità. Proprio questo umanesimo, fil rouge universale della musica, lega assieme la straziante crisi umana e musicale di Čajkovskij – la persecuzione romanticamente inesorabile del destino –, l’emotività del poema sinfonico di Panfili (un pezzo che grida, strilla e canta, come ha detto Pappano) e la ‘neoclassica’ implorazione a Dio del credente Stravinskij.
Ascoltando la nuova versione de L’Aurora, probabilmente si rimane colpiti soprattutto per la perizia orchestrale di Riccardo Panfili. Del resto, in un panorama musicale certo avaro di talenti – che, se anche mai emergessero, sarebbero maggiormente allettati da taluni eccessi di concettosità che, pur comprimendo la cassa armonica dell’emotività, tanto piacciono alla musica contemporanea colta − L’Aurora si distingue per essere (meno male!) impregnata di una sorta di neoclassicismo: perfetto controllo della forma e, soprattutto, della timbrica; idee musicali di chiara humus tardo-romantica/espressionista, con approdi al primitivismo russo (Stravinskij appunto; ma anche Šostakovič); tipica struttura a poema sinfonico, con reminiscenze che da Liszt arrivano a Strauss. Molto interessanti risultano le regioni di passaggio, le cesure strutturali: taluni momenti sospesi, notturni lunari (pizzichi dell’arpa, nella sezione centrale, che screziano un letto vellutato di archi e legni), sono tra i più felici a livello di scrittura. Una patente citazione della Sacre du printemps stravinskiana è presente nell’intromissione del basso tuba che dà origine a una climax inarrestabile fino al finale, dove la musica ristagna in una timbrica fatata (la miglior parte del brano) che sembra descrivere l’incresparsi della luce aurorale. Brano ben scritto, dicevo, ottimamente orchestrato, nel solco della tradizione (non a caso Panfili è stato allievo di Hans Werner Henze, cui il lavoro è dedicato). Panfili, alla fine della performance, sale sul palco, abbraccia Pappano, e con lui si prende i meritati applausi.
Che Pappano ami il genere sacro è evidente. Che riesca così bene a rendere una partitura come quella della Symphonie de Psaumes (versione del 1948), non è del pari scontato. Grande, certo, è il merito della straordinaria orchestra, duttilissima e sonoramente grandiosa, dell’Accademia, vera argilla nelle mani di Pappano; immenso, poi, è il merito dell’eccelso coro dell’Accademia, di cui giova sempre ricordare la bravura e la preparazione. Del «grande polittico in tre pannelli» (F. Serpa) Pappano legge tutto con chiarezza e limpidezza liturgica, facendo risaltare una scelta melodico-ritmica anticheggiante, medievaleggiante e non smorzando affatto gli elementi stranianti tipici di Stravinskij. Si svolgono davanti a noi l’«Exaudi orationem meam», in cui Pappano riesce benissimo a creare atmosfere cariche di angosciosa sospensione; l’«Expectans expectavi Dominum», monumentale per le sue fughe e la potenza corale del finale; e l’«Alleluja», che inizia con un carattere lievemente funereo, continua in ripetizioni quasi allucinate e termina in magnifiche sospensioni, celestiali. Il coro è al completo assieme a quello di voci bianche: tutti insieme sul palco per regalare un’emozione unica. Grandi applausi.
Il concerto termina con un pezzo assai caro a Pappano: la Quinta sinfonia di Čajkovskij. L’orchestra si riprende perfettamente dagli impaludamenti salmodici di Stravinskij ed è pronta a colorarsi vivacemente delle tinte cangianti, ma scure, della partitura. Pappano offre un Čajkovskij meno ‘metronomicamente’ di polso e veramente meno asciutto di tante esecuzioni: l’anglo-italiano, anzi, è sempre morbidissimo nel porgere il discorso musicale. Si conosce l’attenzione spasmodica al dato timbrico del maestro – talvolta, persino, a discapito di quello ritmico. Ma raramente ho colto così tanti colori nel mesto I movimento: dal funebre incedere incipitario del tema del Destino, cantato dai due clarinetti su un impasto di suoni scuri, all’Allegro con anima,dove Pappano stacca sensatamente, mantenendo sempre costante il torpore malinconico della sinfonia. (Un vero peccato che Leonard Bernstein – che io amo d’amore viscerale – qui abbia calcato così tanto la mano da rendere quasi grottesco l’Allegro; misuratissima la resa di Karajan; forse troppo italiani, nella brillantezza, Abbado e Muti; un pizzico ansioso, ma di cuore, il Mraviskij del 1973). Elegiaco e commovente il perfetto ingresso del corno (complimenti a Pellarin) nell’Andante cantabile, dove una cullante agogica si sposa con l’ethos lunare e notturno del brano. Bravo ancora Pappano a non eseguire con un banale frizzo la Valse (III), ma marcandone l’aspetto di insita malinconia; porta, poi, il tutto a compimento nel Finale (IV), mostrandoci ancora come riesca a sfrenare l’orchestra a un volume pazzesco pur mantenendo intatta e rigorosamente esatta un’idea agogica limpida e controllata. Non so dove si possa oggi ascoltare un Čajkovskij così bene eseguito (forse da Temirkanov e Gergiev?).