L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Martha Argerich e la Camerata Manchester diretta da Gábor Takács-Nagy.

La leggenda della pianista eterna

 di Roberta Pedrotti

Martha Argerich torna al Bologna Festival e ancora una volta sbalordisce con la sua arte senza paragoni, già assista fra le leggende eterne della musica. L'accompagna validamente la Camerata Manchester, diretta con spirito da Gábor Takács-Nagy.

BOLOGNA, 6 aprile 2016 - Quanto Martha posa le dita sulla tastiera è subito un altro mondo. Esistono buoni professionisti, bravi artisti, musicisti eccellenti, meteore, astri nascenti e stelle fisse, ma le leggende abitano in un'altra dimensione, e Martha Argerich non è semplicemente una pianista, è una leggenda, un miracolo.

Posa le dita sulla tastiera e il suono di quello strumento accarezzato da mille pianisti non assomiglia a nessun altro se non al suono di Martha Argerich, che è come un bel gatto certosino, un'affascinante, irresistibile morbidezza nei toni del grigio perla, che seduce e turba, perché la sua non è una dolcezza priva di forza, di carattere, le soffici zampette possono sfoderare gli artigli. È, in una parola, carisma, un talento, una scintilla che non si può infondere a chi non la possiede, che non si può apprendere, ma che, pure, vive in perfetta simbiosi con uno studio continuo, una ricerca inesausta. Una vita musicale, assolutamente noncurante del trascorrere del tempo, in una dimensione in cui non ha spazio il fisiologico appannarsi di riflessi e affaticarsi di articolazioni.

Non c'è un'alzata di sopracciglio che possa essere di troppo, che possa tradire la naturalissima eleganza con cui concentra su di sé un'attrazione magnetica in tutta la sala: siamo rapiti, con il fiato sospeso, completamente assorbiti non da una personalità fine a se stessa, ma dalla personalità che fa da catalizzatore sulla partitura, che ci imprime nella mente ogni nota e ogni articolazione del Primo Concerto di Beethoven. E quei ritenuti, quei rubati sciolti con un gusto sovrano, con quel rigore tale da trasformarsi in conturbante libertà, giacchè tutto pare ovvio, necessario nel senso più spontaneo possibile. E proprio la naturalezza del sublime, la normalità dell'eccezionalità avvince come un dolcissimo veleno, che resta in circolo poi per ore, sottilmente perturbante.

D'altra parte Martha Argerich suona questo Concerto di Beethoven fin dall'infanzia, esiste una sua incisione effettuata all'età di sette anni, e tutta una vita si condensa in questa mezz'ora abbondante di arte pura che trascende ogni idea di tecnica, ogni consuetudine.

Quello stesso suono inconfondibile, solo suo è la cifra di un mondo musicale superiore, non uniforma il repertorio così versatile e curioso dell'artista, bensì gli conferisce il crisma dell'unicità, di un carisma che si fa tutt'uno con l'opera, sia Beethoven sia lo Scarlatti dell'abituale bis eseguito sempre a una velocità vertiginosa e sempre sconvolgente per il dominuo assoluto della scrittura, per la capacità di fraseggiare con assoluta chiarezza in qualunque brano, con qualunque tempo.

Non si vorrà far torto alla Camerata Manchester diretta da Gábor Takács-Nagy nell'inchinarsi di fronte alla solista come fulcro assoluto del concerto, ma Martha Argerich, senza soverchiare alcuno con prepotenza, irradia una tale elettricità, un magnetismo, mette in circolo un'adrenalina che per forza di cose fa di ciò che la precede un momento di deliziosa attesa, di ciò che la segue lo scaricarsi di una tensione a lungo accumulata. Anche se i due pezzi in questione, a incorniciare l'ottimo concerto beethoveniano, meritano tutti i rispetti: la squisita Prima Sinfonia di Mozart è il limpido esempio dello sbocciare di un genio. Leopold avrà dato una mano al figlioletto per organizzare le idee? Può darsi, ma non scalfisce l'inventiva del piccolo Amadé, soprattutto per il bel movimento centrale, con le sue ombreggiature melanconiche. La Sinfonia n. 41 Jupiter non ha bisogno, soprattutto in sede di recensione circostanziata e non di saggio musicologico, di esegesi a dimostrarne la grandezza degna dell'intitolazione al re degli dei. L'orchestra inglese si dimostra ben all'altezza della situazione, con buona coesione, leggerezza e spirito. Il maestro conquista il pubblico con qualche battuta in inglese sui trascorsi bolognesi dell'adolescente Mozart e nel presentare un bis, la Preghiera dalla Suite Mozartiana di Čajkovskij , offerto non solo in omaggio al genio di Salisburgo, ma anche a testimonianza dell'autentica piacere della condivisione musicale che caratterizza l'orchestra.

Certo, l'entusiasmo incandescente per la Argerich nella prima parte si è temperato in un franco apprezzamento al termine, ma, l'abbiamo detto, esistono le leggende e poi esistono i comuni mortali, anche eccellenti musicisti, ma pur sempre comuni mortali.


 

 

 
 
 

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