Requiem tedesco, bacchetta slovacca
di Roberta Pedrotti
Juraj Valčuha, con la sua intelligente compostezza e il suo pragmatismo ben ponderato, è il fulcro del Deutsches Requiem di Brahms per la stagione sinfonica del Comunale di Bologna.
BOLOGNA, 22 aprile 2016 - Quasi un'eco del fil rouge brahmsiano della scorsa stagione sinfonica del Comunale, giunge una serata interamente consacrata al capolavoro sacro, ma in nessun modo liturgico, del compositore di Amburgo, Ein deutsches Requiem.
Requiem tedesco perché in lingua tedesca, in lingua madre, intimo, dunque, riflessivo, ripiegato nella ricerca personale di una consolazione, di un senso nell'ineluttabilità della morte. In lingua madre e dedicato alla memoria della madre, da quella memoria ispirato. Requiem impregnato di sentimento religioso, costruito su testi biblici vetero o neotestamentari, ma non confessionale, semmai legato alle stesse istanze da cui nacquero i movimenti pietisti, in essi radicato, come nelle salde origini nel sacro barocco teutonico, Bach, naturalmente, ma anche Schütz e Buxtehude.
Di fronte a questo testo, scelta ideale sembra essere quella di Juraj Valčuha sul podio, conferma del valore del maestro slovacco, a pieno diritto, con la sua prima apparizione felsinea in una Bohème del 2007, nell'albo aureo delle bacchette che da Bologna hanno spiccato il volo vero una grande e meritatissima carriera (scorrendo a ritroso la cronologia, prima di Mariotti troviamo i nomi di Gatti, Jurowski, Chailly, Thielemann…).
Valčuha, innanzitutto, ha un gesto essenziale, sempre composto, non perde mai di vista l'intima concentrazione che sta alla base del Deutsches Requiem, nemmeno quando la fuga del terzo movimento potrebbe ben allettare a qualche slancio scarmigliato. Nessun gesto di troppo, nessuna agitazione, invece, bensì un'attenzione sobria e partecipe al disegno complessivo, al pathos riservato, ora doloroso e titubante ora illuminato di speranza, equilibrando l'architettura razionale ispirata al contrappunto antico e la densità dell'impasto sonoro, con il suo colore specifico ben definito dalla bacchetta. L'orchestra, in buona forma, lo segue con inevitabile impegno e attenzione, e così il coro, a onta di qualche attacco non proprio fermissimo e immacolato – specie fra le signore – come il nitore della trama polifonica auspicherebbe.
Solista principale, voce intima dello stesso autore, è Albert Dohmen, vale a dire il Wotan per eccellenza degli ultimi anni non solo a Bayreuth, il baritono di riferimento per il repertorio tedesco nella sua generazione. E se la voce, non freschissima, dovrà scaldarsi un po', la classe, la musicalità, la cura della parola cantata sono sempre all'altezza del suo nome, sono quelli di un artista di primo livello, perfetto per una partitura come questa.
Viceversa, Sabina von Walther si trova in qualche difficoltà nel suo unico intervento, che non le offre lo spazio per riscattarsi e riprendersi dopo un incipit privo di quell'angelica, materna soavità, di quella purezza celeste che dovrebbe essere fondata su un'emissione perfettamente appoggiata sul fiato. Compensa Valčuha, con un'espressione sempre pudica ed esatta, un'articolazione dall'intenzione sempre intelligente, pragmatica, modellata sulla contingenza allo stesso modo che su una lettura consapevole e sensibile del testo.
Speriamo davvero di poter sempre contare con regolarità sulla presenza di Valčuha a Bologna e nelle sale italiane in genere: una così salda coscienza del rapporto fra pratica e grammatica, senza cedere in personalità e rigore, è una risorsa preziosa per ogni istituzione musicale e garantisce, in questo caso, l'esito del Deutsches Requiem.