Momento magico
di Alberto Spano
Debutta a Bologna lo straordinario pianista inglese Benjamin Grosvenor, che a ventitré anni appare già un gigante del concertismo, in grado di calibrare le sonorità con magistrale perfezione.
BOLOGNA, 25 maggio 2016 – Chi è del mestiere e frequenta il teatro sa bene che in ogni spettacolo pubblico, in ogni concerto o in ogni rappresentazione di qualità esiste un cuore, un apice, un momento clou, in cui, per un attimo, il tempo è come sospeso: mille persone sono appese a qualcosa che è ben difficile definire, ma che si avverte. Si pensi a certi spettacoli circensi, ma anche al centro focale di certe commedie. Il pubblico, in quanto entità astratta, lo avverte inconsciamente e quando ciò accade il singolo coincide col tutto, il sentimento collettivo è unico, il respiro è uno solo. Un recital pianistico non si sottrae a questa regola, anche se questo attimo da cercare non è legato necessariamente alla musica eseguita, ma a un accumularsi di fattori a volte addirittura imprevedibili. Nello straordinario recital al Teatro Manzoni del ventitreenne pianista inglese Benjamin Grosvenor per il Bologna Festival, al suo debutto sotto le Due Torri, non è stato difficile individuare questo clou, pur all'interno di un programma di non banale impaginazione che apriva coi Preludi e Fuga numeri 1 e 5 dell'opera 35 di Felix Mendelssohn, poi offriva la seconda Sonata op. 35 di Chopin e, dopo l'intervallo, Le tombeau de Couperin di Ravel e “Venezia e Napoli” dal secondo libro degli Anni di pellegrinaggio lisztiani, infine tre bis: La Fuente y la Campana di Federico Mompou, il Capriccio di Dohnanyi e Love walked in di Gershwin, trascritto dall'australiano Percy Grainger.
Il “magic moment” del recital di Grosvenor è avvenuto durante l'accoppiata Menuet e Toccata alla fine del Tombeau de Couperin di Ravel, laddove a far precedere la trascendentale Toccata– uno dei brani più difficili e insidiosi dell'intera letteratura pianistica in cui soccombono anche i migliori – è una paginetta candida come un fiore di giglio (il Menuet) sul ciglio di un burrone. Sta alla bravura dell'interprete riuscire a renderlo questo enorme contrasto, tecnico e drammatico, creato dal suo autore. Grosvenor vi è riuscito in una maniera assolutamente perfetta, trovando un'apoteosi quasi onirica di eleganza e virtuosismo, qualcosa che ha ricordato certe prodezze di Walter Gieseking e Benedetti Michelangeli. Il 'miracolo' (sentiamo di non esagerare) al ragazzone dal sorriso beffardo è riuscito ancora meglio che al già prodigioso concerto ascoltato l'anno scorso in agosto al Festival della Roque d'Antheron (leggi la recensione), anche forse in virtù del fatto che stavolta aveva fra le mani un nuovissimo strumento Steinway & Sons proveniente dalla collezione di Fabio Angeletti in una delle sue prime “uscite” pubbliche. Uno strumento veramente felice, che all'enorme ricchezza timbrica nelle varie tessiture (un pianoforte “sinfonico”) univa una meccanica di eccezionale elasticità ed efficienza.
In poco meno di dieci mesi la maturazione di questo giovane inglese è parsa impressionante. In lui ora riconosciamo praticamente solo qualità: in primis l'accecante nitore virtuosistico, poi la ricerca dentro al suono, la scelta di dinamiche e agogiche assolutamente convincenti pur nella loro originalità (vedi la secca ma efficace caratterizzazione del Presto finale nel finale della Sonata in si bemolle minore di Chopin), poi l'agilità e la brillantezza, in una parola l'arguzia sfoderata nei due Preludi e Fuga di Mendelssohn e nel trittico “Venezia e Napoli” di Liszt. Con lui troviamo perfettamente amici l'atleta e il poeta, il retore e il bardo. Non c'è poi tanto da stupirsene, visto che già a undici anni – youtube dixit – il nostro sfoderava suoni di velluto e perfette costruzioni, con un grado di maturità da uomo fatto. Talento puro il suo, ma anche tanta disciplina, applicazione e abnegazione. Non è facile aprire con quei due insidiosi Preludi e fuga di Mendelssohn, esibendo subito un suono tenuto e un uso del pedale da far impazzire la gente del mestiere. Diciamolo infine: una lezione di come si impagina un intelligente programma di concerto. Mirabilia anche nella seconda Sonata di Chopin, nel cui celebre incipit si sono subito scatenate straordinarie forze sotterranee, con aperture a variegate sonorità, il tutto con perfezione canoviana.
Benjamin Grosvenor è a nostro avviso già un gigante del concertismo, in grado di calibrare le sonorità con magistrale perfezione, fino a far risuonare all'interno di una Marcia Funebre particolarmente ispirata, un trio di stupefacente lucentezza, in giusto contrasto con quel sibillino “vento fra le tombe” che è il quarto movimento. Interamente realizzato quasi senza pedale, con suono scarno e secco, con scoppi sonori più simili a un ruggito che al vento: se è vento, è un vento polare freddo e secco, doloroso sulla pelle. Ammirevole infine il gusto sopraffino mostrato nei fuoriprogramma, al momento ignoti, ma offerti con tale perizia che sembrava di averli sempre conosciuti.