Il fenomeno Lang Lang
di Stefano Ceccarelli
Lang Lang è diventato, oramai già da tempo, un fenomeno globale: è, anzi, esso stesso emblema perfetto della globalizzazione. Lang Lang o lo si ama o lo si odia, prescindendo dal suo indubbio talento virtuosistico, che non è certo sub iudice. Che Lang Lang sappia ben suonare il piano, trova tutti d’accordo. Sul suo approccio alla musica colta, sulla sua interpretazione dei brani, ci sarebbe assai più da discutere, arrivando in ogni caso alla conclusione che Lang Lang o piace o non piace. È un aut aut perentorio, ma effettivo, cogente. Nella cornice estiva di Caracalla, Lang Lang propone il programma già eternato in CD dalla Sony (2015), programma di un suo recital parigino: Le stagioni, dodici pezzi caratteristici op. 37b di Pëtr Il'ič Čajkovskij e i quattro Scherzi di Fryderyk Chopin. Il concerto è un successo di pubblico e applausi: ma al coro di plausi non si uniscono le mie perplessità sulle scelte o doti interpretative di Lang Lang.
ROMA, 3 luglio 2016 – Comprendere il fenomeno Lang Lang non è cosa semplice. Io ho avuto la sorte di ascoltarlo dal vivo due volte, ricevendone in parte sensazioni differenti, quasi contrastanti. Lang Lang è certamente un pianista assai dotato tecnicamente, che riesce a eseguire a incredibile velocità e con buona resa sonora i pezzi più impervi: ma – ho l’impressione – col tempo stia perdendo aderenza al testo musicale stesso, esibendosi in maniera eccessivamente ginnica, dando peso a un’interpretazioni troppo esornativa del brano, senza tentare di scavare, di sondarne la musica, di porre domande all’autore e a sé stesso in quanto lettore dell’autore. Insomma, stiamo parlando di una macchina della tastiera. Lang Lang, peraltro, è il più occidentale (nel suo stile d’approccio alla vita) delle stars cinesi musicali dello scongelamento post-comunista, di una Cina industrializzata e profondamente occidentalizzata che cavalca la cresta dell’onda mondiale: benché anche la Wang sia una perfetta stella del jet set all’occidental maniera, in lei mi pare di vedere più Oriente che in Lang Lang; certamente la Wang – per quanto anche lei sia campionessa circense della tastiera – presenta maggior introspezione musicale. Lang Lang è lo showman americano che sa far tutto e bene, ma che scarseggia di una sostanza profonda: il contrario di nomi di suoi colleghi in attività come Sokolov, Argerich, Lupu, Zimerman e due giovanissimi del calibro di Trifonov e Lisiecki – per citare i primi che mi vengono in mente – che pur nel loro pianismo personale, talvolta anche assai personale (Lupu), hanno molto da comunicare. Lang Lang, nel concerto alle Terme di Caracalla per la stagione estiva del Teatro dell’Opera di Roma, ci ha fatto ascoltare bei pezzi, in fin dei conti ottimamente eseguiti, ma non ci ha fatto sentire cosa lui percepisce in Pëtr Il'ič Čajkovskij e Fryderyk Chopin. Il suo pianismo è da spettacolo: perfetto controllo del volto e delle mani, movenze d’attore consumato. Ma a chi voglia sondare nel vero profondo della musica non aiuta molto.
Il concerto s’è aperto con Le stagioni di Čajkovskij, dodici pezzi che coniugano a un calore tutto shumanniano, a una dolcezza mendelssohniana, una grazia eminentemente čaikoskiana, sublime interpretazione musicale dell’ethos e del sentimento umano più caratteristico di ogni singola stagione: l’ispirazione del russo è erede del pezzo breve e d’effetto, evocante emozioni umane legate alle attività antropiche o alle caratteristiche naturali delle diverse stagioni intese come un ciclo (canonizzate fino, almeno, da Vivaldi). Caracalla non è palcoscenico per i concerti di singoli strumentisti: benché l’effetto del pianoforte ai piedi dei bastioni romani sia romanticamente inebriante, l’acustica è quel che è (e anzi i tecnici romani sono riusciti a fare il possibile, cicale, gabbiani, aerei e traffico permettendo!). Lang Lang propone interpretazioni esteticamente apprezzabili, ma che scendono – come ho detto – poco nel profondo. Gli unici due brani in cui ho percepito qualche colore in più sono stati Mai: Les nuits de mai e Juin: Barcarolle: le dolci notti di maggio, calde ma non afose, regalano un incanto d’amore quasi casto (eppure l’Allegro giocoso contrastante con la melodia principale esce dalle dita del cinese così naïf rispetto a esecuzioni di un calore impareggiabile, come quelle di Pletnev, o così dolcemente scanzonate come quella di Richter, o delicata, introspettiva, come la celebre incisione di Ashkenazy); e l’hommage à Mendelssohn della Barcarolle ci riporta in una statica, afosa Venezia – anche qui imparagonabile a un Ashkenazy, come anche a un Matsuev (di cui ho avuto il piacere d’ascoltare l’intero ciclo dal vivo). Il tratto agogico troppo personale, fatto di rallentamenti improvvisi, aperture altrettanto repentine, di un apparato d’effetti, in soldoni, fatto a uso e consumo dell’applauso, emerge fin da Janvier e Février, evocanti rispettivamente un tardo pomeriggio al calore di un camino borghese e il fervore del carnevale (soprattutto in Février il bonario narcisismo pianistico di Lang Lang trova pane per i suoi denti!). L’erotismo accennato di Mars: Chant de l’alouette si sperde in manierismi troppo marcanti, quando dovrebbe essere a fil di corda. Août: La moisson è ancora l’emblema perfetto del pianismo di Lang Lang: istrionico ma non brillante. Non riesco a sentire propriamente i corni da caccia echeggiare in Septembre: La chasse. Sinceramente coinvolto in Octobre: Chant d’automne (come non si potrebbe esserlo, del resto?), l’esecutore marca troppo la Troika e manca di un po’ dell’opportuna delicatezza in Décembre: Noël. Gli applausi sono stati, a dover di cronaca, molto accesi (persino importunamente, fra un brano e l’altro).
Il secondo tempo è dedicato agli Scherzi di Chopin. Si avverte ancor più come Lang Lang esegua le note ma non gli dia reale vita. Brani come lo Scherzo n. 1 in si minore op. 20 dovrebbero brillare d’altra vita (si pensi solo all’estatico squarcio di luce centrale, come l’eseguiva Horowitz). Con lo Scherzo n. 2 in si bemolle minore – re bemolle maggiore op. 31 siamo nel campo cangiante di una grande potenza drammatica che trapassa in momenti di più sentita dolcezza: Lang Lang di questi chiaroscuri fa sentire ben poco – al confronto, per citarne solo uno, di un Rubinstein. Nell’esecuzione della schizofrenica scrittura dello Scherzo n. 3 in do diesis minore op. 39, che parte da accordi spezzati e arriva poi a un’impressionistica serie di accordi e soffuse volate, per tornare e ritornare su sé stessa, Lang Lang esprime certo il meglio del suo pianismo: ma siamo ancora lontani dal più giovane Trifonov, ad esempio. Lo Scherzo n. 4 in mi maggiore op. 54 non muta la situazione. Lang Lang riceve ancora il suo profluvio di applausi da un pubblico che lo osanna più come icona che come interprete consumato dei brani che ha ascoltato – oppure che semplicemente l’apprezza, per carità. I bis sono langlanghiani: un valzer di Chopin, un tema cinese e la turchesca mozartiana, che è forse il più chiaro sigillo della poetica musicale di Lang Lang (rallentamenti, accelerazioni repentine, puro spettacolo di velocità).