Un catartico naufragio
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia di Santa Cecilia porta in tournée italiana la Sinfonia n. 9 in re minore per orchestra, soli e coro op. 125, la “Corale”, di Ludwig van Beethoven. Dopo la tappa casertana, nella splendida e storica Reggia (triste simbolo – ahimè – della decadenza italiana), giunge quella romana, nello stadio del tennis al Foro Italico. Una miriade di persone siedono sugli spalti del campo centrale. Ad aprire il concerto la deliziosa JuniOrchestra, composta dalle promesse future dell’Accademia, diretta da Simone Genuini: una tenerezza infinita questi ragazzi infondono nel IV movimento della Sinfonia n. 1 in do maggiore, donandoci proprio il senso dell’alfa e dell’omega della musica di Beethoven. L’omega è chiaramente la Nona, superbamente eseguita dal Maestro Antonio Pappano, dall’orchestra e dal coro di accademici. L’esperienza è catartica, il messaggio altamente nobile, profondamente umano e universale: l’amore di tutti gli uomini fra di loro, la fratellanza, l’essere figli della stessa terra, l’essere devoti tutti assieme alla Gioia (Freude), l’esser tutti fratelli e amici. Messaggio che dovrebbe oggi essere particolarmente ascoltato. Un autentico, dolce, leopardiano naufragio in una delle più belle partiture mai scritte.
ROMA, 5 luglio 2016 – Se Aristotele stesso avesse potuto assistere al concerto al Foro Italico del Maestro Antonio Pappano, avrebbe avuto certo l’impressione di trovarsi davanti al fenomeno che lui stesso definì, nella Poetica, catarsi. Del resto, Ludwig van Beethoven con la Nona sinfonia creò un dramma umano in musica che evocasse quasi l’intera gamma delle emozioni umane: un clima di incertezza primordiale si respira nelle prime note e quanto più la scrittura si evolve tanto più la musica si schiarisce, si fa più apollinea, pur ondeggiando perennemente nel dionisiaco, mai perdendo una meta precisa però – almeno alle orecchie di un ascoltatore che sappia andare oltre la mera piacevolezza delle note. Il finale inno è di una potenza mai udita in precedenza – e forse mai più anche in futuro: vi si respira un afflato laico e divino al contempo, potentemente universale, espresso in immagini classiche che hanno ancora il potere di ammaliare, conquidere con le loro olimpiche metafore. Pappano sa interpretare questa potentissima opera alla perfezione.
Immaginate il centrale del tennis al Foro Italico completamente gremito di persone, una folla incredibile – tanto che per far entrare tutti s’è dovuto ritardare l’inizio del concerto. Michele dall’Ongaro e Pappano salutano il pubblico e presentano la JuniOrchestra che esegue, sotto la direzione di Simone Genuini, il IV movimento della Prima sinfonia in do maggiore di Beethoven. Poter ascoltare, osservare questi ragazzi, giovanissimi e bravissimi, impegnarsi, dare tutto loro stessi, amare intensamente la musica che stanno suonando, rende il mondo un posto migliore. Ogni volto brilla dello scintillare mozartiano dell’Allegro; è del resto giusto che i più piccini eseguano il primo Beethoven, quello ancora legato all’impianto haydniano-mozartiano della sinfonia settecentesca, che lo suonino con tutta la freschezza genuina della loro passione per la musica. Grandi applausi a fine esecuzione; applausi che li hanno accompagnati anche nel loro assidersi sugli spalti di Monte Mario, felici di assistere al concerto dei loro ‘fratelli maggiori’.
Disposta l’orchestra e il coro, salito sul palco il Maestro Pappano, tutto è pronto: s’è in mondovisione, anche live in streaming, realizzandosi così effettivamente la globalizzazione della musica del grande tedesco. La Nona – si può dire – ha due incipit, un movimento lento e un finale, tutti pezzi di un potere evocativo sconfinato. L’impianto acustico del centrale funziona benissimo, non avviene dispersione del suono, per quanto flebile e tenuto in pianissimo (si pensi solo all’avvio del I movimento…): tutti possono – la vera democrazia della musica – sentire ogni nota alla perfezione. Pappano annega totalmente in Beethoven: noi affoghiamo assieme a lui, naufraghiamo nella sinfonia. L’italo-inglese si destreggia come ci ha già fatto sentire in più di un’occasione (ricordo l’ultima sua Nona a Roma lo scorso ottobre). Nel I movimento (Allegro ma non troppo. Un poco maestoso) inizia il viaggio del nostro animo, dal caos primordiale (l’uso della quinta vuota nell’introduzione), ai romantici moti della giovinezza dell’animo umano, dalla percezione delle gioie alle sofferenze stesse, quasi senza che si distinguano chiaramente. Pappano controlla magistralmente questa potentissima massa di emozioni convertite in suono, in sussulti, in accenni di fughe, falsi finali, riprese, turbolenze, attimi di simil quiete. Quasi non riusciamo a riprenderci, che ecco ricominciare quasi tutto da capo, con un colpo, con una fuga: è il secondo incipit della Nona. È lo Scherzo: Molto vivace. Presto (II), dove Beethoven condensa ogni gioia che abbia mai espressa in musica, dall’impeto coreutico del primo saltellante tema, al trio centrale che ci fa riascoltare la pasta sonora della sua migliore musica pastoral-campestre (Sesta). L’annegamento vero avviene però nell’Adagio molto e cantabile: è da questo momento che ho incominciato e non più smesso di avere gli occhi lucidi di pianto, che molti intorno a me hanno cominciato a lacrimare, a commuoversi, a far vibrare assieme le loro anime. Una delle scritture più struggenti che io conosca, degno cullante preludio alla potente Ode alla Gioia schilleriana. Quando attacca il IV movimento, siamo tutti un fremito. Cominciamo a emergere dal naufragio in questo mare, a spiaggiarci sull’isola di Freude, della Gioia universale, divinità eminentemente laica, che unisce tutti gli uomini. Si dipana la sinfonia nella sinfonia (Ch. Rosen): dopo il pomposo ingresso (molto affidato ai violoncelli) cominciamo a ascoltare in pianissimo il celeberrimo tema che cresce, cresce come la gioia che proviamo nell’ascoltare la splendida, fulgida resa di Pappano. Ecco che entra il basso Thomas Tatzl: «O Freunde, nicht diese Töne!». Poi il coro: è un’invasione di irrefrenabile gioia, vorresti abbracciare chiunque ti capiti a tiro. L’intero stadio risuona delle note beethoveniane e delle esaltanti parole di Schiller: «Freude, schöner Götterfunken / Tochter aus Elysium […] Alle Menschen werden Brüder, / Wo dein sanfter Flügel weilt». La commozione arriva al culmine. I solisti fanno bene il loro lavoro, benché non eccelsi (Tatzl è un pochino nasale e belante; la Rachel Willis-Sørensen un po’ dura negli acuti; Adriana di Paola alle volte scompare vocalmente; Brenden Gunnell un po’ sfibrato, dalla voce poco angelica – mentre qui servirebbe un tenore proprio di quel tipo); il coro è assolutamente straordinario, come sempre ci dimostra in ogni sua performance; per non parlare della straordinaria orchestra. Pappano conclude potentemente, facendoci ascoltare bene i motivi turcheschi inseriti da Beethoven nel finale (la marcetta dei giannizzeri), che dall’Ongaro, nel foglio di programma, non manca di rubricare come citazione del celebre assedio di Vienna del 1683, di cui Beethoven avrà sempre sentito parlare come dell’attacco più pervasivo al cuore dell’Occidente tra quelli a lui storicamente vicini, ma che non manca, in ogni caso, di evocare nella musica di un inno alla fratellanza universale. Beethoven lancia un messaggio ancor più universale di quello di Schiller: con la musica indica che bisogna superare persino Lepanto, persino la contrapposizione fra Occidente e Oriente. Mai messaggio fu più attuale per la nostra situazione storica, con un variopinto Occidente attanagliato da un terrorismo orientale di matrice islamica (e allo stesso tempo non completamente islamico), incarnante il male universale, l’opposto polo del messaggio di profonda libertà che viene veicolato dalle parole di Schiller e dalla musica universale di Beethoven.