Una rockstar e il suo Stradivari
di Stefano Ceccarelli
All’interno del festival musicale Luglio suona bene 2016 si esibisce un’autentica stella dell’archetto, acclamato e venerato dai suoi fan, perfetto emblema di un mondo globalizzato spasmodicamente attento all’estetica: David Garrett. A fianco del tedesco/americano v’è la bella direttrice Alondra de la Parra, felice eccezione in una professione (quella del direttore d’orchestra) tradizionalmente appannaggio di figure maschili. Il programma ruota attorno al Concerto per violino di Čajkovskij eseguito da Garrett e comprende anche le parti orchestrali della Carmen di Bizet e un’antologia di musica colta centro/sudamericana: Estancia di Ginastera, Huapango di Moncayo e Danzón n. 2 di Márquez. La de la Parra dirige bene solo il suo repertorio, quello sudamericano, deludendo in Čajkovskij e non entrando realmente nelle maglie di Bizet. Garrett, tecnicamente sopraffino, atletico ai limiti del possibile, non approfondisce una partitura di Čajkovskij che ha un’anima ricchissima.
ROMA, 21 luglio 2016 – Il festival estivo dell’Auditorium (Luglio suona bene 2016 con la fondazione “Musica per Roma”) ci propone, con i complessi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, un concerto che è quasi a cavallo fra cultura pop e tradizione classica: la bella Alondra de la Parra dirige una star dell’archetto, David Garrett, autentico divo del violino, amato e osannato al pari di una rockstar, in grado di mandare il pubblico in visibilio.
Un concerto che si presenta con un programma seducente (in tutti i sensi), basato su musiche di Bizet, Pëtr Il'ič Čajkovskij e autori centro/sudamericani (un argentino e due messicani) che spaziano dal tardoromanticismo a musica novecentesca. Alondra de la Parra incomincia con il Prélude e gli Entr’acte (I, II e III) dalla Carmen di Bizet – una suite che non segue le due tradizionali e che porge, in ordine invertito, i brani esclusivamente orchestrali dell’opera: de la Parra lascia emergere le sensuali screziature della raffinatissima orchestrazione di Bizet (soprattutto gli Entr’acte I e II) ma cominciamo a scorgere tutti i suoi limiti nell’interpretazione orchestrale, come una certa qual non voluta naïveté nell’agogica (troppo meccanica, poco attenta a taluni respiri interni della partitura) e una pervicace ricerca di una rotondità di suono anche laddove l’autore abbia, magari, previsto un momentaneo vuoto, un suono meno tondo (del resto, non è poi la musica una dialettica fra pieno e vuoto?). Per dirla in breve, la de la Parra fa bene il suo mestiere ma senza ravvivare veramente «una partitura d’opera ricchissima di sfumature emotive, nella quale la tavolozza espressiva va dall’erotismo alla sublimazione» (belle parole di S. Ciolfi dal programma di sala).
Alla sortita di David Garrett si genera il delirio più totale: la cavea all’aperto (così progettata da Renzo Piano), gremita fino agli spalti, è pazza per il suo idolo, che incarna tutti i requisiti di un eroe della società di massa: un grande talento tecnico virtuosistico unito a un’indubbia piacevolezza estetica, da modello, da rockstar con bionda chioma fluida. La partitura in programma fa tremar le vene e i polsi di ogni interprete coscienzioso: il Concerto per violino di Pëtr Il'ič Čajkovskij, dato al pubblico solo tre anni dopo la sfortunatissima première di Carmen. L’esecuzione complessiva è appagante per il pubblico, che applaude alzandosi praticamente tutto in piedi – pubblico, mi sia concesso di dire, fastidiosissimo: una selva di cellulari e iPad solo desiderosi di riprendere, non di godersi il momento, peraltro più volte e giustamente rimproverato dalle maschere; un’interpretazione, però, che rimane in più punti abbozzata per un cultore che abbia buon orecchio e volontà di ascoltare fino in fondo ciò che si suona. E non sto parlando dello Stradivari Busch 1716 di Garrett (col retrogusto fluidamente argentino che caratterizza il suono degli Stradivari) o del suo interprete, a livello meramente tecnico, quanto piuttosto dell’approccio complessivo alla partitura: troppo show e spesso poca sostanza interpretativa. Si badi, Garrett fa di tutto e lo fa benissimo: ogni tipo di agilità, salto, suono a fil d’archetto, filati, portamenti, schizofrenici passaggi, istrioniche zigane giravolte, tutto è eseguito magistralmente. È l’anima vera di Čajkovskij che non ho percepito in quest’esecuzione, quello spirito safficamente dolceamaro che pervade ogni partitura del russo. Da una direzione accomodante, da un’impostazione agogica volta solo a esaltare il ritmo, senza molto curarsi di tanti micro-contrasti, senza respirare (anche affannosamente) di tanto in tanto, insomma da una de la Parra priva di autentica personalità emerge una partitura orchestrale a uso e consumo del virtuosismo cristallino, ma talvolta freddo, di Garrett. A farne le spese è particolarmente quel notturno velo che delicatamente avvolge la Canzonetta (II), dove Garrett sì esegue le belliniane arcate melodiche coscienziosamente, ma non facendo piangere il violino (come Ojstrach o Perlman, per citare due grandi interpreti della partitura). Il funambolico Allegro moderato è un ininterrotto monologo del violino, un monologo dalle arditezze zigane, dal virtuosismo spericolato, che Garrett cavalca con disinvoltura fino alla trascinante cadenza (tutti tratti della penna di Čajkovskij così stupidamente criticati all’epoca della pubblicazione, giudicati ineseguibili); e così pure nell’Allegro vivacissimo (III), dove Garrett fa far tutto al suo Stradivari. Il pubblico applaude contentissimo: Garrett regala come bis un gustoso siparietto sulle note del Carnevale di Venezia di Paganini assieme all’orchestra dell’Accademia.
La seconda parte del concerto vede la de la Parra impegnata in musica contemporanea centro/sudamericana e si percepisce come sia maggiormente a suo agio con queste partiture: la direttrice è ambasciatrice del Messico e ha prescelto quella nazione come sua residenza. S’infiamma, de la Parra, nella direzione di Estancia: Quattro danze op. 8a di Alberto Evaristo Ginastera, che alterna ritmi agresti a danze caratteristiche argentine in una brillante orchestrazione; non riesce a non ballare all’accattivante ritmo di Huapango di José Pablo Moncayo: le sue mani (ha infatti una gestualità molto accentuata) cercano di abbracciare tutta l’orchestra, in un’estasi ritmica che pervade e screzia tutti i timbri orchestrali. Si termina con la Danzón n. 2, latinamente sensuale. In questo repertorio de la Parra può dar veramente moltissimo, mostrandoci un’introspezione assai più accurata delle precedenti partiture. Calorosi applausi chiudono il concerto.