Due quinte per una prima
di Alberto Ponti
Schubert e Mahler inaugurano la stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
TORINO, 21 ottobre 2016 - Ogni sinfonia di Gustav Mahler (1860-1911) si apre con un gesto inconfondibile. Bastano poche note, e si dischiude un mondo, che verrà esplorato nei suoi anfratti più nascosti e inaspettati nel corso della composizione, ma rimarrà sempre quello già perfettamente identificato nelle prime battute. Così è per la Quinta (1901), con i fatidici squilli di tromba a introdurre la celebre marcia funebre, sorella maggiore, più giudiziosa e un po’ meno sfacciata, di quella nel terzo movimento del Titano (1888), opera prima di uno dei corpus sinfonici più impressionanti della storia.
James Conlon, direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai a partire da questa stagione, che ha preso il via all’Auditorium Toscanini di Torino con il primo appuntamento giovedì 20 e venerdì 21 ottobre, non rinnega nella sua concertazione un tratto tipicamente americano. Sono così assai lontane certe malinconie inconsolabili che la scrittura di Mahler sembra evocare, e che le interpretazioni di scuola europea (con Abbado in testa, ma arrivando fino all’insospettabile e ‘antiromantico’ Boulez) assecondano con naturalezza. Qui il riferimento è invece Bernstein per cui, nonostante la profonda e inestinguibile drammaticità di certe pagine, ‘the show must go on’. Mahler ben si presta tuttavia a un’interpretazione di tal fatta, e non esiste una sola sua opera in cui egli, da grandissimo direttore (e uomo di teatro) qual era, non dia ai colleghi di là da venire l’occasione di lanciare le sue enormi orchestre a vertici di virtuosismo e puro edonismo sonoro.
Conlon evidenzia in modo magistrale questo aspetto, tracciando un affresco di grande potenza espressiva pur mantenendo sempre il pieno controllo dei mezzi, tanto che anche nei passaggi più enfatici e fragorosi il senso della forma rimane ben vivo, grazie alla capacità di lettura di una trama contrappuntistica che, soprattutto nel finale, assurge a notevole complessità.
Lo stesso notissimo adagietto, lungi dal prestare il fianco a morbosi abbandoni, come vorrebbe un certo cliché di derivazione cinematografica, assume il ruolo di una distesa e serena meditazione prima dell’incandescente rondò conclusivo.
Chiave di volta di tutto il lavoro è però il monumentale scherzo, vera summa del pensiero sinfonico maturato da Mahler fino a quel momento. Il pezzo, di prodigiosa varietà timbrica, in cui a ogni strumento (a cominciare dal primo corno di Ettore Bongiovanni, a lungo acclamato al termine dell’esecuzione) è richiesto il massimo in termini di espressività e integrazione in un impianto orchestrale sempre cangiante, è condotto dal maestro statunitense con piglio robusto e vigoroso, traducendo appieno l’indicazione kräftig apposta dal compositore.
Calorose ovazioni per tutte le prime parti, soprattutto gli ottoni, chiamati a sostenere dalle fondamenta l’edificio mahleriano (oltre al corno, in rilievo anche la tromba dell’ottimo Roberto Rossi), e per l’intera orchestra chiudono un concerto d’esordio che ha visto un pubblico molto partecipe anche se non numerosissimo come l’occasione avrebbe meritato.
In apertura si era ascoltata un’altra Quinta sinfonia, la leggiadra opera (1816) di un Franz Schubert (1797-1828) poco più che adolescente. Anche in quest’altra partitura, di proporzioni e organico ben più ridotti, il gesto di Conlon, evitando di cadere nella levigatezza biedermeier di molte interpretazioni correnti, esalta l’elasticità degli archi e alcuni sapidi impasti dei fiati che, in un contesto ancora ispirato a Mozart e Haydn, dimostrano quanto già il giovane musicista avesse assimilato, con sicurezza infallibile, dalle prime otto sinfonie di Beethoven, uscite da poco dalla fucina del genio di Bonn.