Mahler come eredità
di Francesco Lora
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha dedicato alla memoria di Claudio Abbado l’esecuzione della Sinfonia n. 2 “Resurrezione”. Più che il pupillo Daniel Harding e i distinguo nelle scelte vocali, autentici testimoni della poetica abbadiana risultano essere i complessi ceciliani stessi.
ROMA, 10 dicembre 2016 - Il rapporto di Claudio Abbado con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dall’esordio del 1961 nell’Auditorio Pio fino al congedo del 2011 nel Parco della Musica, è stato rado e discontinuo: ventisei soli concerti in quarant’anni. In tale novero e periodo, inoltre, egli ha perlopiù recato a Roma compagini esterne (European Community Youth Orchestra, Berliner Philharmoniker, Gustav Mahler Jugendorchester, Lucerne Festival Orchestra, Mahler Chamber Orchestra, Orquesta Sinfónica Juvenil de Venezuela “Simón Bolívar”, Orchestra Mozart e Eesti Filharmoonia Kammerkoor) o, in modo reciproco, si è servito dell’orchestra e del coro ceciliani al di fuori della capitale italiana (Reggio nell’Emilia, Bologna e Lucerna). La cronologia dà così conto di una sola manciata di concerti in Santa Cecilia, con Santa Cecilia e per Santa Cecilia: i cinque giovanili del 1961-65 e quello del 2011, benché quest’ultimo a organico fuso con l’Orchestra Mozart; in mezzo spicca il ritorno, nel 1980, dopo quindici anni d’assenza: in programma v’era la Sinfonia n. 2 “Resurrezione” di Gustav Mahler, partitura simbolica che Abbado scelse anche per il concerto di debutto con la London Symphony Orchestra e per quello di rifondazione della Lucerne Festival Orchestra.
È soprattutto questo precedente a dotare di un’aura speciale il concerto degli scorsi 8, 9 e 10 dicembre nella sala maggiore del Parco della Musica: Sinfonia n. 2 di Mahler come colossale monografia, Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, esplicita dedica alla memoria di Abbado. A catalizzare l’operazione è il concertatore designato, Daniel Harding, che vent’anni fa il divino Claudio trasse famoso dal nulla. Tempi spediti e direzioni decise, qualche vanità nel curare dettagli scelti, attitudine e tecnica tagliate e rifinite non abbastanza da garantire sempre il naturale respiro della gigantesca composizione: lo dimostrano le frasi sostenute con fiati di quando in quando brevi, spezzati e affannosi, o l’indicativo sopravvento stesso delle file d’orchestra sul gesto direttoriale; lo contraddice invece la giusta unitarietà e continuità strutturale conferita al blocco dei tre ultimi movimenti, col Lied Urlicht che riesce a uscire dal brano precedente quasi sorprendendo l’ascoltatore e meravigliandolo con l’improvvisa mutazione d’orizzonte. Come che sia, proprio con Harding e in questa prova, nell’evocare il grande maestro, si palesa come all’eredità artistica di Abbado non corrispondano artisti eredi.
Si riabilitano, al più, taluni suoi vezzi e distinguo, insensati senza la persona ed espressi per esempio nella scelta delle voci soliste. Il soprano Anna Lucia Richter è luminosa e giovanile nel porgere quanto fredda nel timbro e fissa nell’emissione, con una pericolosa tendenza ad aggiustare l’intonazione del suono dopo l’attacco e a confondere così il già traboccante spettro armonico mahleriano; mentre il contralto Anna Larsson esibisce il modesto profitto di un’artefatta intubazione da falsettista, di un registro grave calcato e roco anziché accogliente e vellutato, e di un registro acuto che si fa duro e teso ancor prima di uscire dal pentagramma. Altro coraggio e altro modello, qui rimpianti, furono quelli di Daniele Gatti che, chiudendo il penultimo Maggio Musicale Fiorentino con la “Resurrezione”, fece piazza pulita di specialismi presunti e chiamò le ben altrimenti scaltre e integre vocalità italiane di Eleonora Buratto e Sonia Ganassi.
Il trionfo delle tre serate romane si assembra così sui più autentici testimoni della poetica di Abbado: l’Orchestra e il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. L’una è trainata da quelle che rimangono forse le più ispirate prime parti d’Italia, e procede superba di amalgami, sussurri e schianti suscitati in sé prima che da una bacchetta. L’altro è ineccepibile nella proclamazione dei versi tedeschi di Klopstock, ma a ciò aggiunge una prestanza tecnica – risonanza, squillo, brillantezza; morbidezza, duttilità, prospettiva – preclusa alle omologhe compagini d’oltralpe. L’enorme sala dell’auditorium, così riempita, pare stringersi nel ricordo del direttore scomparso ed eccedere i propri muri verso l’infinito.