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Finché d'Ezio rimane la spada
di Roberta Pedrotti
Funestata da un'indisposizione del baritono Simone Piazzola, costretto ad abbandonare la recita prima della conclusione, la prima replica di Attila con la compagnia del debutto vede protagonisti Maria José Siri, Ildebrando D'Arcangelo e Fabio Sartori. Si confermano, nel bene e nel male, le impressioni su concertazione e regia.
Leggi la recensione del cast alternativo
BOLOGNA 26 gennaio 2016 - Dopo il buon esito musicale della recita di domenica, ci si è avvicinati alla replica con il cast della prima animato dalle più rosee aspettative, curiosi non di differenti livelli qualitativi, ma di differenti personalità artistiche. Intorno alle 20 dagli altoparlanti in sala si annuncia che lo spettacolo avrà inizio con dieci minuti di ritardo. Poco male di per sé, anche se si spera si tratti solo di un un inconveniente momentaneo. Di lì a qualche minuto, però, ancora un avviso: si ringrazia Simone Piazzola per aver accettato di prender parte alla recita nonostante “un importante problema di salute”. L'aggettivo mette in allarme, ma si vuole essere ottimisti: la performance del baritono veronese nei panni di Ezio è attesissima e può darsi che Piazzola, magari con un pizzico di cautela in più, sappia offrirci comunque una bella serata.
In effetti nell'ingresso con il grande duetto “Tardo per gli anni e tremulo” appare comprensibilmente prudente, tuttavia, all'aprirsi del sipario dopo l'intervallo, pare che la voce si sia scaldata, che il peggio sia passato e si possa veleggiare ormai abbastanza tranquilli verso il finale. Certo, qualche segno di stanchezza, lo smalto un po' offuscato del cantante non in perfetta forma si avvertono, ma non sono tali da celare la classe dell'artista, che non forza mai l'emissione, conferma tecnica salda, sicura in acuto e nel legato. Piace, poi soprattutto, il senso della nobiltà del canto verdiano, nobiltà che non stride, bensì esalta, in questo caso, con begli spunti di fraseggio la doppiezza del condottiero romano.
Il più è fatto, pensiamo, mentre scorre la grande scena del banchetto e vediamo Attila poggiare amichevolmente la mano sulla spalla di Ezio: non è un'eccessiva cordialità fra due condottieri in rispettoso convito diplomatico, è solidarietà fra colleghi. In quel momento sembra di riconoscere non il re degli Unni e il generale romano, bensì Ildebrando e Simone, che non escono dai personaggi ma mostrano di essere anche persone. Frattanto Attila intima a Ezio di annunciare a Roma “che de' sogni ho rotto il vel”, dopo l'ultimo cambio scena Foresto canta “Che non avrebbe il misero” ed ecco una brusca interruzione. Le luci si accendono in sala. Cala il sipario. Qualcuno borbotta senza preoccuparsi, pensando all'ennesimo cambio scena, chi sa che nessun cambio è previsto dall'allestimento – né sarebbe possibile musicalmente – comincia a preoccuparsi. Che sarà successo? I minuti trascorrono pesanti come ore prima che un faro illumini il proscenio ed esca Michele Mariotti per comunicare che le condizioni di Simone Piazzola non gli consentono di portare a termine la recita, che ora proseguirà comunque per rispetto del pubblico. Applausi grati e partecipi. Poi si leva nuovamente il sipario, la musica riparte quando Foresto impreca “Tutti d'Averno i demoni” e rientra Odabella. Il quartetto sarà terzetto, Attila non avrà di fronte a sé un Romano cui rinfacciare “Roma salvata”; la tenuta musicale, nell'emergenza, sarà ammirevole, così come la coerenza teatrale. Anzi, se mai avremmo voluto ascoltare il finale così privato di una voce, almeno abbiamo avuto una conferma tangibile della bellezza della scrittura verdiana, osservando l'incastro delle parti da altra prospettiva, la cura strumentale dell'accompagnamento rimasto orfano di canto. Gli applausi conclusivi si vorrebbero dire festosi, se la situazione lo permettesse: sono caldi, convinti, riconoscenti, l'apprezzamento vivo e sincero.
Difficile, in una serata come questa, per tutti gli artisti esprimersi serenamente, difficile riflettere sulle loro prestazioni come se si trattasse di una recita simile a tante altre.
Sicuramente non si potrà fare a meno di apprezzare l'approccio di Maria José Siri a Odabella per l'intelligente quadratura musicale privilegiata rispetto all'esibizione di spavalderia. In sostanza: pensando prima alle insidie di “Oh! Nel fuggente nuvolo” che non all'esplosione pirotecnica della sortita. Ché il ruolo, dopo “Santo di patria” non è certo di tutto riposo, e se la primadonna si presenta saettando su e giù per il pentagramma con baldanza guerriera, non meno arduo è il suo sussurrare nella solitudine della natura la memoria del padre e dell'amato. La vocalità si mostra salda, non tonante ma adeguatamente corposa e proiettata (vale il discorso fatto per la Kybalova nell'altro cast: non importa tanto con quanta voce si cantino queste parti, bensì come si cantino), l'acuto svettante; sicuramente la rifinitura di un ruolo del genere - specie nei passi più scopertamente belcantistici, elegiaci o eroici che siano - non potrà mai dirsi esaurita, si avverte talora che il timbro potrebbe esser più libero, ma il punto di partenza è giusto e saldo, l'esito efficace e convincente.
L'altro debutto (italiano) illustre e atteso era quello di Ildebrando d'Arcangelo nel ruolo eponimo. L'esperienza mozartiana e belcantista è sempre stata il miglior viatico per gli interpreti del ruolo e la concertazione di Mariotti, raffinata con nerbo, è sicuramente la migliore che un cantante, massime delle caratteristiche di D'Arcangelo, potrebbe desiderare. Insomma, le premesse ci sono tutte e si sommano al bel colore vocale e alla personalità non priva di fascino dell'artista, che suggerisce un Attila ombroso, sfuggente, inquieto, sospeso fra grandi slanci e crolli psicologici. Peccato davvero che la situazione non fosse la migliore per esprimersi al massimo delle sue potenzialità.
Fabio Sartori resta il Foresto che sappiamo, forse il più assiduo frequentatore del ruolo e per questo sicuro come una macchina da guerra, non l'artista più fine che si possa immaginare, incline alla forza più che all'introspezione sottile, ma affidabile e rassicurante.
Non cambiano, nelle recite, il Leone di Antonio di Matteo, che speriamo faccia proficuo tesoro d'una voce nera che sembra provenire dall'abisso, e l'Uldino di Gianluca Floris.
Non cambia l'apprezzamento per la concertazione di Michele Mariotti, che ribadisce alla prova più difficile come la forza e la coerenza della sua lettura non temano l'emergenza e l'imprevisto, come la sua bacchetta sappia sostenere il palcoscenico nei momenti difficili senza perdere in coerenza e urgenza drammatica, come forza e raffinatezza vadano di pari passo in questo Verdi che va apprezzato di per sé, contestualizzato nel percorso creativo, senza necessariamente spingerlo verso quel che è stato e o che sarà.
Non cambia la perplessità sull'allestimento di Daniele Abbado (regia) coadiuvato da Giovanni Carluccio (scene, luci e, insieme con Daniela Cernigliaro, costumi), Simona Bucci (movimenti scenici) e Boris Stetka (regista collaboratore). Messa in scena innocua, né bella, né interessante, con qualche sfasatura nell'illuminazione.
Il pubblico, per il turno A di abbonamento, è fortunatamente più folto rispetto alla recita di domenica, grazie anche ai non pochi che, da altre città, hanno risposto al richiamo di Attila e l'hanno salutato con calore. Con calore anche maggiore inviamo i migliori auguri di rapida e piena guarigione a Simone Piazzola.
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foto Rocco Casaluci e Renato Morselli