L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La Vedova in cassaforte

 di Lucio Tufano

Al San Carlo di Napoli torna l’allestimento di Federico Tiezzi che trasporta la storia di Hanna Glawari alla fine degli anni Venti; tra gli interpreti spiccano Markus Werba e Bernhard Berchtold.

Napoli, 26 gennaio 2016 - Dopo la Carmen inaugurale, la stagione 2015-2016 del San Carlo prosegue con La vedova allegra di Franz Lehár nella messinscena già presentata dallo stesso teatro nel 2010 e transitata su vari palcoscenici italiani. Alla base dello spettacolo ideato da Federico Tiezzi sta l’accento posto sul peso del denaro e dell’interesse economico all’interno della vicenda. In omaggio a questa idea, il regista ambienta l’azione alle soglie della grande crisi del 1929, assecondato dalle scene di Edoardo Sanchi. Il sipario si alza dunque su una borsa valori con tanto di pannelli led su cui scorrono le quotazioni, e Hanna Glawary fa la sua prima apparizione uscendo a sorpresa da una sfavillante cassaforte. Lo spunto, tuttavia, resta privo di sviluppi coerenti, se si eccettua l’assai blando promemoria costituito dai saltuari svolazzi di banconote; in compenso la severa architettura in stile Piazza Affari incombe inutilmente sul resto dell’azione.

La stessa sorte tocca al maxischermo che nella scena iniziale accoglie grafici di andamenti azionari e quote di cambio; in seguito, però, il fondale diventa un giocattolo ingombrante che non si sa bene come maneggiare e che perciò viene utilizzato, un po’ a sproposito, ora per proiettare secche geometrie che nulla hanno a che fare con l’atmosfera della pièce, ora per comporre un gigantesco bouquet di rose dai colori pastello che incornicia la canzone di Vilja all’inizio del secondo atto (con ciò banalizzando in direzione piattamente sentimentale un momento cruciale, visto che attraverso quella triste melodia Hanna contempla la propria dimensione più autentica, di norma celata sotto il baluginio dei lustrini e dei milioni). Più in generale, l’allestimento di Tiezzi è caratterizzato da un marcato eclettismo che si traduce in un accumulo di elementi slegati e in un accostamento di idee prive di un polo aggregante. Il tono complessivo quasi mai centra il delicato connubio di eleganza e malinconia che costituisce il segreto e il fascino dell’operetta viennese, e più spesso si aggira incerto tra musical e avanspettacolo senza trovare una cifra coerente.

La mancanza di un vero nucleo ispiratore si avverte anche nei costumi di Giovanna Buzzi. Fin troppo uniformi sono le uniformi dei personaggi maschili, fin troppo varie le fogge degli abiti femminili, o inclini alla purezza della gamma bianco-grigio-nero, o troppo chiassosi nell’esplosione cromatica che accompagna l’immancabile cancan di Offenbach, accolto nel terzo atto per convenzione inalterabile.

Sempre sul piano visivo, va segnalato l’effetto molto approssimativo prodotto dal siparietto d’argento che, simile a una striscia di carta stagnola, viene periodicamente calato a mezza altezza per isolare il proscenio e accogliere i dialoghi recitati (ma anche una resa piuttosto scialba e meccanica di "È scabroso le donne studiar"). Infine, fa pensare a una gigantesca cabina doccia la tenda trasparente con fogliami che, nel secondo atto, dovrebbe dare intimità al flirt di Camille e Valencienne.

Carmela Remigio risulta non del tutto convincente nella parte della protagonista. I generi ‘misti’, si sa, richiedono interpreti molto versatili. Quando canta, la Remigio sfoggia doti di agilità e di intonazione (benché il volume non sia sempre pieno), e anche il gesto e il movimento appaiono appropriati. Ma quando parla, il soprano abruzzese non sfugge alla leziosità e all’affettazione: più che pronunciare le parole, le compita come in un corso d’italiano per stranieri; la sua Hanna, perciò, resta avvolta da una patina neutra e indistinta, dalla quale non traspaiono né emozioni né volizioni.

Di alta qualità è l’interpretazione di Markus Werba; per rendere ancora più efficace il suo Danilo Danilowitsch occorrerebbero pochi tocchi di chiaroscuro, di insinuante malizia e di savoir-faire galante. Notevole è anche la prova di Bernhard Berchtold, che sostiene il ruolo di Camille de Rossillon con sicurezza di emissione, bellezza di timbro e pulizia di fraseggio. Discontinua appare invece la Valencienne di Valentina Farcas, spigliata nei dialoghi parlati ma a volte poco incisiva nel canto.

Bruno Praticò, che diverte con l’innegabile talento di attore, offre una voce infiacchita al Barone Zeta. A beneficio del basso-baritono aostano, la partitura accoglie un innesto posticcio e gratuito all’altezza della prima scena del terzo atto, dove Zeta, rammemorando un’improbabile attività diplomatica in terra partenopea, intona la canzone in dialetto napoletano ’A risa (La risata), portata al successo a fine Ottocento da Berardo Cantalamessa. La parentesi macchiettistica punta al facile coinvolgimento del pubblico locale, ma purtroppo non aggiunge brio allo spettacolo.

Il desiderio di conquistare i consensi degli spettatori napoletani sembra ispirare anche l’arruolamento di Peppe Barra nel cast. Nella caratterizzazione del ruolo di Njegus, Barra resta indeciso tra guizzi di istrionismo oleografico (considerati a torto indefettibili) e più misurate eleganze mitteleuropee (di cui pure si rivela capace); il risultato è che il lazzo risulta fuor di luogo, mentre l’ironia resta superficiale e non riesce a superare l’intralcio dei cliché.

Completano il cast Domenico Colaianni (Cascada), Enzo Peroni (Raoul de Saint Brioche), Matteo Ferrara (Bogdanowitsch), Francesca Martini (Sylviane), Donato Di Gioia (Kromow), Miriam Artiaco (Olga), Dario Giorgelè (Pritschitsch) e Lara Lagni (Praskowia). Il corpo di ballo del San Carlo porta un contributo essenziale nei numerosi segmenti danzani che punteggiano i tre atti dell’opera; le sobrie simmetrie delle coreografie recano la firma di Lienz Chang.

Il direttore viennese Alfred Eschwé, specialista del repertorio, conferisce notevole smalto all’orchestra e, con raffinata sensibilità agogica, incalza senza precipitazioni e rallenta senza sbavature. Tuttavia la performance risulta nel complesso poco coinvolgente, il ritmo spesso ristagna e lo spettacolo finisce per essere poco fiabesco e ancor meno ironico. È come se gli artisti in scena non ci credessero fino in fondo. E di conseguenza ci crede poco anche il pubblico, che saluta la passerella finale con applausi meno calorosi del consueto.


 

 

 
 
 

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