La rivelazione di Otello
di Giovanni Chiodi
Il formidabile allestimento firmato da Damiano Michieletto rende al dramma rossiniano tutta la sua forza rivelandone qualità e sottigliezze spesso insospettate. Eccellenti anche il cast guidato da un John Osborn in forma smagliante e la concertazione di Antonello Manacorda.
VIENNA, 1 marzo 2016 - Da quando ha messo in scena il Trittico di Puccini nel 2012, Damiano Michieletto (in team con Paolo Fantin, Carla Teti, Alessandro Carletti) intrattiene un rapporto privilegiato con il Theater an der Wien, ormai divenuto sinonimo di palcoscenico dinamico, d’avanguardia e aperto alle sperimentazioni teatrali. Il luogo ideale per rappresentare un Otello che marcia decisamente controcorrente. Ci avevano provato (con successo) qualche anno fa Leiser e Caurier a Zurigo. E già allora si era capito che molto si poteva fare per uscire dalle secche dei soliti schemi. Perché, se è vero che a paragone di Shakespeare (e di Verdi), l’Otello di Rossini è, più semplicemente, come diceva uno che se ne intendeva (De Musset), la triste storia di una fanciulla calunniata che muore innocente, dopo aver visto la nuova produzione di Vienna qualche dubbio è venuto. Perché Damiano Michieletto i personaggi li sa far recitare e interagire proprio tutti. Come regista, non spreca neanche una frase, non si lascia sfuggire mezza battuta, ed è maestro nel rintracciare sottotesti e nello scovare relazioni inaspettate.
Così l’Otello di Rossini diventa un gigantesco complotto di famiglia: di un gruppo familiare potente e ricco, dove tutti i personaggi sono imparentati tra loro. Jago è un cugino, Desdemona ed Emilia sono sorelle, entrambe figlie di Elmiro (Fulvio Bettini), Rodrigo a sua volta è figlio del Doge (Nicola Pamio). Solo Otello è l’estraneo, per giunta arabo e musulmano: un facoltoso uomo d’affari, che provvede ad incrementare le finanze e che ha conquistato il cuore della ragazza. La cosa sconvolge i piani dei due patriarchi, decisi ad organizzare un matrimonio di interesse. Ai problemi di cuore si aggiunge la disobbedienza ai rispettivi padri, che non ne vogliono sapere di assecondare le inclinazioni dei figli. Che, nel caso di Rodrigo, sono rivolte più verso Jago, di cui subisce l’attrazione fatale. In un contesto come questo, che si compone pezzo per pezzo davanti ai nostri occhi già durante la sinfonia dell’opera, proprio come Paolo e Francesca, che qui sono non solo evocati dal canto del gondoliere, ma compaiono raffigurati in un quadro appeso alle pareti della lussuosa dimora signorile e anche come due attori in carne ed ossa che agiscono insieme ai cantanti, Otello e Desdemona sono due vittime innocenti. Jago, però, non è il solo a mentire, in questa produzione. In questo clima di intrighi e tradimenti, trova un alleato in Emilia, che nutre alte ambizioni al pari del cugino: di sposare lei Rodrigo e di conquistarsi la posizione che Desdemona rifiuta di occupare. Jago e Rodrigo, come Emilia e Desdemona, sono quindi due coppie quasi simmetriche, in cui alla parola non corrisponde il cuore. Proprio come induce a credere il testo dei recitativi e dei loro duetti. Ne esce perciò meglio definita proprio ciò che è sempre stata considerata la pecca dell’Otello rossiniano, cioè l’insufficiente peso psicologico dei personaggi che ruotano intorno a Desdemona. Qui al contrario Emilia, di solito inesistente, al più un’amica in affanno, è invece una sorta di arrampicatrice sociale, come Jago. Rodrigo, invece che un pallido amante respinto, è un figlio represso, che nella grande aria del secondo atto finisce quindi per rinfacciare i suoi tormenti al terribile padre-padrone. Jago è un ambiguo tessitore di trame che, per manipolare Rodrigo, non esita a sfruttare l’arma erotica (i due si scambiano un bacio durante il loro duetto del primo atto). Anche Otello acquista una dimensione inedita, sublimata dal canto magistrale di John Osborn. Michieletto non esita a mettere in scena una vera e propria discriminazione razziale. Otello è veramente l’escluso, che solleva scandalo e riprovazione quando tenta di forzare il cerchio magico della famiglia. E questo si vede fin dall’aria del primo atto quando, con una mossa a sorpresa, Otello regala a Desdemona niente meno che un velo. Questo Otello, poi, è anche un fervente religioso, che prega sul suo tappeto: lo stesso sajjada che, con evidente disprezzo, Rodrigo gli strapperà per gettarlo provocatoriamente a terra durante il terzettone del secondo atto. Nel quale la posa dei due amanti trafitti dalla spada finirà per coincidere con quella del quadro di Paolo e Francesca.
Ci sono poi altre idee singolari. Nel finale secondo, durante la grande scena di Desdemona, assistiamo al funerale metaforico di Desdemona, organizzato dal padre disonorato. Mentre nel terzo atto, non solo è Desdemona a prendere l’iniziativa della propria uccisione, a questo punto liberatoria, dato che sottrae entrambi gli amanti alle ineluttabili trame familiari, ma a tragedia compiuta la famiglia riunita viene mostrata mentre brinda allegramente alle nuove nozze di Rodrigo (sempre titubante) e di Emilia, mentre delle due vittime innocenti che giacciono a terra coperti di candidi fiori nessuno più si cura. Due vittime innocenti, di prevaricazione (e di razzismo). L’effetto di questo finale, in teatro, è emozione allo stato puro. Questo non è semplicemente teatro che fa riflettere: è soprattutto teatro che costruisce sui personaggi e marcia all’unisono con la musica. Michieletto infatti rovescia i luoghi comuni, ma sempre muovendosi all’interno del perimetro segnato dal testo.
Si aggiunga che il cast è notevole. Una spanna sopra tutti è John Osborn, che ormai in questo ruolo concorre solo con se stesso e stravince, non solo per aderenza vocale alla complessa scrittura, coloratura fluida, acuti e sovracuti spavaldi, ma anche per lo stile impeccabile e soprattutto la profondità nella costruzione di un personaggio vero e umano, che va a toccare le corde più intime della sofferenza. E l’attore non è meno convincente del cantante. Nino Machaidze è una Desdemona molto determinata, con una voce dal colore scuro che si addice alla parte, buona agilità e slancio. Peccato che l’accento e la dizione non siano sempre all’altezza di una parte che esige una dinamica ultrasfumata nelle arie (soprattutto nel grande banco di prova della canzone del salice) e assoluta, perentoria chiarezza nella resa della parola scenica, che qui c’è solo a tratti. Maxim Mironov offre un’ottima prova come Rodrigo. Rossini è il terreno di elezione per una voce come la sua e lo dimostra nell’aria del secondo atto, molto ben fraseggiata, e negli scatti ascensionali dei duetti. Vladimir Dmitruk è uno Jago intrigante e ultrapresente in palcoscenico (con qualche intemperanza di troppo). Gaia Petrone (doppiata vocalmente da Alix Le Saux nella recita alla quale ho assistito) una Emilia di particolare intelligenza scenica.
Antonello Manacorda imposta una concertazione tesa, che non si avvita mai su se stessa, si mantiene scattante, rapida, vorticosa, energica, ma nello stesso tempo controllata e non precipitosa nelle strette, nei duetti, nei concertati, curata nelle sfumature e nei colori, soprattutto nelle arie. E’ una lettura incalzante che è in sincrono con uno spettacolo complesso come questo. I Wiener Sinfoniker suonano benissimo in ogni settore, con precisione, nettezza e trasparenza di suono (vicino a quello di strumenti originali) e con particolare luminosità nel campo dei legni (meravigliosi). L’Arnold Schonberg Choir, diretto da Erwin Ortner, fornisce una notevole prova attoriale e una presenza vocale di prim’ordine.
foto © Werner Kmetitsch