La polvere del tempo e il vento della gioventù
di Claudio Vellutini
Cornice collaudata, e un po' polverosa, per un cast giovane alla Lyric Opera. L'esito è solido, più dinamico che contemplativo, ma il capolavoro di Strauss e Hofmannsthal richiederebbe una maggior profondità.
CHICAGO, 06 marzo 2016 - Der Rosenkavalier rischia sempre di scivolare nel kitsch, complice la sua atmosfera decadente e crepuscolare. Richiederebbe, dunque, artisti di gusto sorvegliato, capaci allo stesso tempo di rendere giustizia ai contrasti della partitura di Richard Strauss e alle sfumature del frastagliato libretto di Hugo von Hofmannsthal. Per la produzione andata in scena questo inverno, la Lyric Opera di Chicago ha puntato su una solida e professionale compagine musicale mentre per la componente visiva si è affidata a un trito e convenzionale allestimento firmato da Martina Weber (regia), Thierry Bosquet (scene e costumi) e Duane Schuler (luci), che ha riprodotto una Vienna da cartolina (per la verità parecchio sbiadita). Se il fine dell’operazione era solo quella di fornire ai cantanti (quasi tutti molto giovani) una cornice sicura e senza rischi per concentrarsi sulla performance vocale, l’obiettivo è stato raggiunto. Crediamo, tuttavia, che Strauss e Hofmannsthal meritino di meglio, soprattutto perché dietro le pieghe di questa monumentale partitura si cela un gran bel pezzo di teatro, dai meccanismi delicati e raffinati sì, ma anche complessi da gestire, soprattutto nell’ultimo atto.
Lo ha capito il direttore d’orchestra Edward Gardner, che ha offerto una lettura forse talora un po’ sommaria e sbrigativa in alcuni dettagli (ad esempio, nella famosa scena della consegna della rosa), ma anche lucida e dinamica, più impegnata sul piano dell’azione che non su quello della pura contemplazione. A determinare tale taglio interpretativo può aver concorso la scelta dei cantanti a disposizione. Né Amanda Majeski nel ruolo della Marschallin, né Alice Coote in quello di Oktavian sembrano interessate a proporre una lettura dei rispettivi personaggi tutta stucchi e preziosismi. Amanda Majeski ha offerto un ritratto giovanile della Marschallin, vocalmente all’erta, ma ancora un po’ costruito “da fuori”. La cantante possiede una voce solida, flessibile e corposa che ben si presta a personaggi più energici (la sua Vitellia ne La clemenza di Tito mozartiana è ben presente nella memoria recente del teatro). L’impressione, nel caso presente, è che questa Marschallin abbia un po’ le ali tarpate. Lo strumento e la personalità della cantante sembrano voler definire un personaggio più incline all’autoritarismo che alla contemplazione malinconica, ma un tale orientamento interpretativo sembra solo cautamente accennato. Alice Coote rende bene il lato spigliato e irruento di Oktavian, ma, complice un organo dal registro acuto precario e forzato, sembra tralasciane la patina di ingenuità e freschezza. Più tradizionale la Sophie aggraziata e ben cantanta di Christina Landshamer, qui al suo debutto americano.
In tale contesto, non sorprende che il carismatico Barone Ochs di Matthew Rose, tanto debordante quanto sorvegliato vocalmente, si imponesse quale personaggio più centrato della produzione. Ottimo anche il Faninal di Martin Gartner e lo stuolo di personaggi minori, tra i quali ricordiamo in particolare la piccantissima Annina di Megan Marino, il Valzacchi di Rodell Rosel e la Marianne di Laura Wild. René Barbera si è ritagliato il proprio momento di gloria nel piccolo cameo del Tenore italiano. L’eccellente contributo dei giovani artisti del Ryan Opera Center impegnati nelle parti di fianco ci ricorda ancora una volta il contributo strategico di questo programma all’attività del teatro e, più in generale, la sua importanza nel panorama operistico degli Stati Uniti.