Travolta da un insolito destino
di Roberta Pedrotti
Va in scena Carmen al Comunale dii Bologna con la regia di Pietro Babina, esordiente all'opera, che viene accolta da una disapprovazione decisamente sproporzionata. Bene, pur con qualche distinguo, la compagnia di canto guidata da Veronica Simeoni e Roberto Aronica e intrigante la direzione di Frédéric Chaslin.
Leggi la recensione della replica con Melis, Marianelli, Gorrotxategui e Alberghini
BOLOGNA, 18 marzo 2016 - Molto rumore per nulla, o, almeno, troppo rumore senza uno scandalo: il regista Pietro Babina viene accolto, al termine della prima di Carmen, da una compatta salva di bu. Compatta e un poco eccessiva, ché ogni lettura può piacere o non piacere, può essere discussa, suscitare ammirazione o riprovazione, reazioni unanimi o contrastate, ma la realizzazione ha comunque messo in luce una solidissima padronanza teatrale da parte di Babina e dei suoi collaboratori: lo spettacolo era congegnato con coerenza, e personaggi delineati con chiarezza nella psicologia e nell'evoluzione dei reciproci rapporti, senza trascurare dettagli degni di nota. Per esempio Don José dimostra subito di non essere un figliolo modello aprendo con interesse decisamente maggiore la busta contenente il denaro rispetto a quella con la lettera della madre e nel languoroso duetto con Micaëla è distratto dalla conversazione che, contemporaneamente, Zuniga tiene con la bella sigaraia; la consegna del fiore (un'emblematica rosa nera) avviene al termine del preludio da parte di una Carmen inconsapevole e refrattaria, guidata dal Destino verso l'oscurità celata dietro al sipario, mentre dopo l'Habanera ci sarà uno scambio di sguardi, un riconoscersi, un gesto (la mano di lei sul petto di lui) di distanza e confidenza più volte reiterato; ancora, l'anello è consegnato e restituito già in due occasioni – nella taverna di Lillas Pastia e sui monti – prima che, al culmine del confronto fatale, Carmen per un'ultima volta, pacatamente, lo porga ancora a José “autrefois, tu me l'avais donnée... Tiens!”: diventa così un elemento drammaturgico portante e non una scoperta degli ultimi minuti.
Tutto è al servizio di un'interpretazione netta, decisa, ben comprensibile, non rivoluzionaria benché non strettamente tradizionale. Carmen non è la forza della natura, il prepotente e sensuale spirito libertario femminile, ma, al pari di Thaïs, l'idole fragile, una donna segnata dal suo destino, un oggetto del desiderio anche suo malgrado, inevitabilmente complice dei contrabbandieri, inevitabilmente amante di più uomini, inevitabilmente distillato di spirito iberico per un pubblico che vuole vedere nella Carmen donna e, di riflesso, nella Carmen opera il folclore, il colore, il flamenco e la seguedilla. Carmen è vittima di una finzione, la sua è una Spagna turistica, che lo stesso Bizet confezionò senza averla mai visitata, e la scena della taverna di Lillas Pastia, immaginata come locale che allestisce serate con danze tradizionali, giochi di prestigio e apparizioni a sorpresa di eroi della Plaza de toros, se ne giova in credibilità, perfino quando i visitatori si compiaceranno della cattura di Zuniga da parte dei contrabbandieri prima di affollarsi, nell'ultimo atto, per assistere alla corrida e all'atto finale dell'amore di José e Carmen. Il quale amore, gioco di un Destino incarnato da un prestigiatore con il suo ironico seguito di bimbi in rosse tutine da diavoletti, è anch'esso rappresentazione. Sugli ultimi accordi i due si rialzano e raccolgono gli applausi del pubblico-coro e dei colleghi sulla scena, attori del gran teatro della vita. Un pizzico di Pirandello, un pizzico di Brecht, in fondo nulla di trascendentale, tanto più che l'azione non contraddice i tempi e i ritmi musicali: non è detto che debba piacere a tutti, non è detto che sia uno spettacolo rivelazione (non lo è), ma stupisce che desti ancora sorpresa e repulsione in molti. Accoglienze del genere si son viste per ben altri fallimenti teatrali, mentre Babina in questo esordio operistico dimostra di sapere il fatto suo, con un controllo tecnico di luci, spazi, recitazione comunque non scontato.
Tanto più che i cantanti se ne giovano, ché Veronica Simeoni trova in questa Carmen femminilissima e delicata dalla personalità sfuggente il terreno d'elezione per la sua vocalità raffinata dai riflessi ambrati, cui mal si assocerebbe una gitana sanguigna e procace. Viceversa la levità da opéra-comique unita alla sottile inquietudine, alla franchezza quasi ingenua con cui ora combatte ora si ressegna al destino la vedono interprete ideale. In particolare si segnalano alcune sfumature espressive davvero toccanti, come quando fa dell'invito a José a seguirla sulle montagne la malinconica obbedienza ai complici che le avevano chiesto di coinvolgere il dragone più che l'erotico e indomito richiamo alla libertà. L'affiatamento con Roberto Aronica, compagno anche nella vita, si concretizza, poi, in una perfetta combinazione di caratteri, così lunare lei, così vigoroso, virilmente inquieto lui. Rispetto alla Simeoni e a relativo dispetto delle sue radici più liriche, Aronica non brilla nel côté opéra-comique (vedasi i pur parchi abbellimenti della canzone del Dragon d'Alcala), ma dispensa squillo e accenti perentori con spavalda autorevolezza vocale, come si confà a un Don José più drammatico, capace di cantare anche una Fleur tutto sommato convincente nonostante l'impostazione muscolare di questa sua fase della carriera.
Non un autentico eroe dell'antica tauromachia, ma un simpatico intrattenitore in vesti folcloristiche, è l'Escamillo di Simone Alberghini, che scala le montagne in verosimile tenuta alpinistica carico, però, di volantini dei suoi spettacoli che distribuisce a mo' d'invito perfino ai migranti che Carmen e i suoi “contrabbandano” fra le alture. Il personaggio, non proprio propenso a sferrare con ardimento “coups de navaja”, calza a pennello alla simpatia sorniona dell'ormai più baritono che basso bolognese: emissione non proprio ortodossa ma teatralità sempre incisiva ed esito convincente.
L'anello debole risulta essere Maria Katzarava, una Micaëla inconsistente nel centro e grave, tendente all'urlo in acuto, frastagliata in una linea in cui si stenta a ravvisare l'indispensabile legato.
Frasquita e Mércèdes sono, rispettivamente, Sonia Ciani e Antonella Colaianni, ottime sulla scena, passibili di un'ulteriore rifinitura nell'affiatamento reciproco sotto il profilo musicale. Poco differenziati il Dancaïre e il Remendado di Maurizio Leoni e Paolo Antognetti, il primo dai riflessi tenorili troppo prossimi al secondo; ben insinuante il Moralès di Nicolò Ceriani e debitamente distinto lo Zuniga in borghese – forse militare d'alto grado ormai più assimilato a un'autorità politica e, soprattutto, interessato più ad affar di donne che di ordine pubblico – di Massimiliano Catellani. Lucia Michelazzo (la venditrice d'arance) e Sandro Pucci (uno zingaro) completavano il cast con gli attori Alessandro Ciardini (Lillas Pastia), Andrea Fidelio (il Mago/Destino) e Roberto Giovenco, Francesco Mauri, Federica Laganà e Laura Pizzirani.
Il coro preparato da Andrea Faidutti si disimpegna bene e soprattutto per i bimbi guidati da Alhambra Superchi, accanto alla performance musicale andrà lodato l'impegno continuo come attori.
Sul podio Frédéric Chaslin non dirige la Carmen che tutti ci potremmo aspettare, ma non ci sorprende nemmeno con scelte eclatanti. Accende l'attenzione ma non sconcerta, lavorando di fino sui rapporti fra i tempi (bello il crescendo della Chanson bohème) e rapportandosi alla partitura in maniera assai analitica, quasi chirurgica. Si avverte lo sguardo del compositore oltre al concertatore, di un compositore raffinato, che entra nei meandri delle strutture drammaturgiche e musicali per scegliere di sbalzare un dettaglio – sia un timbro, un ritmo, un motivo – rispetto a un altro, senza mai, quest'è certo, abbandonarsi all'edonismo della danza, della sensualità, della commedia e del dramma. Più che conquistare, intriga, anche per l'impronta discreta con qui sembra lavorare – di fino – sottotraccia.
Alla fine, abbiamo detto, applausi per tutti i cantanti, buona accoglienza complessiva per tutta la parte musicale, totale disapprovazione per quella visiva. Eppure non era una Carmen da scandalo; non era nemmeno una Carmen storica, indimenticabile, geniale. Era semplicemente un'onesta Carmen che può piacere o meno, che può essere discussa, ma travolta da un destino troppo più grande di lei.
foto Rocco Casaluci