Le tinte dei Foscari
di Pietro Gandetto
Passaggio di consegne Domingo-Salsi per i Foscari in scena alla Scala con la direzione di Michele Mariotti, che anima con la sua salvifica concertazione un'esecuzione musicalmente convincente - pur con qualche distinguo - quanto teatralmente scialba.
MILANO, 15 marzo 2016 - Dopo le 5 recite sold-out firmate dall’evergreen Placido Domingo, l’anello dogale dell’ottuagenario veneziano Francesco Foscari passa al baritono Luca Salsi, che offre una lettura del ruolo davvero convincente. Classe vocale da vendere, emissione sicura e voce brunita: insomma, solo tutto quello che ci si aspetta da un vero baritono verdiano. Sembra poco, preso alla lettera, ma è invero un gran risultato. Ci si augura di vederlo più spesso al Piermarini.
Gli equilibri vocali e musicali di Verdi trovano qui piena realizzazione, con un efficace contrasto tra le tinte scure della vocalità di Salsi e quelle luminose di Meli, il quale, nel ruolo di Jacopo, dà sfoggio anche in questa sede di una vocalità esteticamente appagante e di una dizione cristallina, che ben mettono in luce la pur debole figura del giovane Foscari. Lascia perplessi la gestione che il tenore fa del registro acuto, dove si avverte una sorta di scollamento rispetto ai centri, ma stiamo parlando comunque di uno dei migliori tenori del momento.
Meno entusiasmante il contributo di Anna Pirozzi nei panni di Lucrezia Contarini. Se, da un lato, registriamo una buona resa dei toni espressivi, intransigenti e protervi della protagonista, da un altro lato non possiamo sottacere uno scarso controllo della tessitura acuta e dei virtuosismi.
Andrea Concetti vestiva i panni del perfido Jacopo Loredano e le parti di fianco erano affidate a Edoardo Milletti (Barbarigo), Chiara isotton (Pisana), Azer Rza-Zade (Fante) e Till von Orlowsky (un servo).
Momenti felici quelli regalati dalla bacchetta di Michele Mariotti, che costruisce una sorta di “salvagente musicale”, capace di esaltare ciò che di buono la partitura offre, e di salvare ciò che di meno buono l’opera sconta. Intendiamoci, non mancano nei Foscari momenti musicali ben riusciti, come la cabaletta di Jacopo del primo atto e il finale del Doge del secondo. Ma non mancano nemmeno situazioni musicali meno coinvolgenti, come il valzerino del coro dei suonatori nel primo atto. Poco importa, perché Mariotti risolve questi momenti, mettendo in rilievo i colori, le dinamiche e i chiaroscuri orchestrali con cui Verdi affida agli strumenti lo studio psicologico dei personaggi. Anche se nel primo atto non succede quasi nulla, con Mariotti non ci si annoia mai, grazie a una direzione sempre a fuoco e tesa alla ricerca di un suono granitico e limpido, che non degenera mai nel nazionalpopolare in cui talvolta si fanno cadere alcune composizioni degli anni di galera.
Ugualmente non si può dire per la regia e le scene di Alvis Hermanis, che non compensano minimamente e, casomai enfatizzano, i momenti di vuoto drammaturgico dei Foscari. Anzitutto poco convincenti le scenografie-concetto con le proiezioni video di cartoline veneziane e di loghi damascati che si alternano senza tregua. Anche registicamente, si nota un certo appiattimento, che mal si concilia con “la tinta, il colore troppo uniforme” dei Foscari, per citare lo stesso Verdi, già vittima del complesso del “mortorio”, in una lettera al Piave del 22 luglio 1848. Il Consiglio dei Dieci, cui fa eco l’allegra danza dei mimi, non è per nulla tenebroso come dovrebbe essere, e le lugubri acciaccature che accompagnano le scene consiliari, da sole, poco o nulla possono per creare la dovuta tetraggine. Il coro, come sempre, brilla di luce propria, e incanta per colore, precisione e intonazione.
foto Brescia Amisano