Il campo al canto
di Francesco Lora
Nella Favorite di Donizetti al Teatro La Fenice, una regìa più di parole che di fatti e una concertazione di mero disimpegno fanno convergere ogni attenzione su cantanti di vaglia quando non d’eccezione: Simeoni, Osborn e Priante su tutti.
VENEZIA, 21 maggio 2016 – Nel programma di sala della Favorite di Donizetti, come andata in scena al Teatro La Fenice dal 6 al 21 maggio, la regista Rosetta Cucchi dice di aver voluto «creare un mondo futuribile, dove le convenzioni e le consuetudini che legano oggi i rapporti tra uomini e donne si sono estinte nel momento in cui si sono estinti sia il patto sociale che la natura, cioè la forza che dà linfa all’essere umano. Un mondo dove si conservano resti di una natura morente e dove gli uomini sono stati scientemente divisi dalle donne, le quali hanno perso i loro diritti e vengono allevate per procreare una futura stirpe di guerrieri. [...] A tutto ciò si contrappone Léonor [...]. A sovrastare questo universo artificioso è una casta, o meglio una setta di monaci-scienziati – di cui Balthazar è il leader – che controlla le sorti dell’umanità». Il lettore non si impensierisca più di quanto l’intervistata vorrebbe: lo spettacolo ha scene, di Massimo Checchetto, e costumi, di Claudia Pernigotti, così essenziali da eludere la connotazione storica; per il resto, si tratta del testo e della drammaturgia noti al melomane, blandamente distolti dalla didascalia, affidati soprattutto all’esperienza pregressa degli interpreti. Uno spettacolo che scorre via quasi come non vi fosse, e che ha soprattutto il pregio di non disturbare la musica.
La partitura è quella della versione originale francese, secondo l’edizione critica di Rebecca Harris-Warrick, con tagli così modesti da passare inosservati: anche il balletto dell’atto II, benché scorciato, rimane al proprio posto, salvato dalla disponibilità di un paio di danzatrici. Non memorabile la concertazione di Donato Renzetti, avara di ritmo e colori, inerte nell’evocazione e nella narrazione, sensibile al canto ma più nell’accontentare che nello spronare e ispirare: orchestra e coro della Fenice lavorano con il consueto onore, senza poter fare più del poco a loro richiesto.
Ma è presto per dire che il presente resoconto sia un dispaccio di sconfitta. Si ha infatti in Veronica Simeoni una protagonista non onnipotente nel saliscendi tra i registri e nella sferzante energia del porgere, come la Sonia Ganassi di dieci anni fa, né trascinante per morbido velluto e nobile dignità, come la Daniela Barcellona dello stesso periodo; ecco però una brava Léonor per i nostri giorni: alleggerita rispetto alla tradizione in pasta e impeto, ella risulta anzi timida, sfuggente, viepiù misteriosa, di certo più vittima che eroina, donna all’insegna dell’introversione, della modestia, di ciò che la superficialità di altri tempi teatrali avrebbe a priori precluso alla spettro psicologico di una favorita regale.
Accanto alla primadonna torreggia formidabile John Osborn come Fernand: canto radioso, sano, elegante e duttile lungo tutta la gamma, con un timbro di per sé comune, ma trasfigurato da un’emissione magistrale, e con ascese entusiasmanti ai vertici del pentagramma. La sua è una conferma, mentre una sorpresa viene da Vito Priante. Dopo essersi fatto le ossa nel versante del dramma giocoso mozartiano, rossiniano e donizettiano, il suo Alphonse XI incanta per sobria aristocrazia d’accento, levità e legato nel cantabile, energica persistenza del rotondo timbro baritonale anche quando il canto a fior di labbro rasenti involo e sostanza tenorili: un interprete più prezioso in questo singolare debutto che nei cavalli di battaglia.
Funzionale è invece Simon Lim come Balthazar: possiede volume cospicuo e smalto intatto, ma non la sottigliezza di fraseggio, l’autorevolezza ieratica e la capacità di differenziare, nello stesso personaggio, il caritatevole padre spirituale e il tremendo latore della scomunica.
Picchi nel comprimariato: Pauline Rouillard, come Inès, rimane alla mente per la brillante linea di canto e il privilegio di madrelingua; Ivan Ayon Rivas, come Don Gaspar, vanta a sua volta tali squillo, colore e mordente da lasciarsi spesso prendere per Osborn nell’intrico del concertato. Si attendono sviluppi.
foto Michele Crosera