Jamais Carmen ne cédera!
di Andrea R. G. Pedrotti
Cambiano la bacchetta e le interpreti femminili e si riscattano così le sorti della Carmen areniana. L'esperienza di Julian Kovatchev succede felicemente alla lettura piuttosto insipida di Xu Zhong; Carmen Topciu è un'autentica rivelazione nei panni della protagonista, mentre Irina Lungu ribadisce il valore della sua ben nota e apprezzata Micaëla.
Leggi la recensione della prima diretta da Xu Zhong con Luciana D'Intino ed Ekaterina Bakanova
VERONA, 9 luglio 2016 - La Carmen è stata l’ennesima prova di come un teatro e il suo pubblico possano definirsi vivi e non cedere mai. Non è mai elegante porre paragoni fra artisti, ma la serata veronese del 9 settembre è stata, inoltre, testimone di come un cambio di bacchetta posso mutare completamente l’esito di uno spettacolo, che vedeva immutate le masse artistiche e gli interpreti maschili.
La concertazione di Julian Kovatchev probabilmente non sarà stata memorabile, ma il maestro bulgaro ha dimostrato di saper gestire gli spazi con sicurezza, specialmente nel rapporto degli equilibri fra buca e palcoscenico. Naturalmente si può e si deve discutere a proposito dell’interpretazione del testo sia nelle scelte dinamiche sia in quelle agogiche, ma si è almeno dimostrata una piena comprensione della partitura e della drammaturgia. Già l’attacco dell’ouverture ha un piglio ben diverso rispetto alla serata inaugurale diretta da Xu Zhong e perfino talune mende registiche del primo atto appaiono così meno fastidiose. Permane una coreografia poco costruita e consequenziale alla musica, con il corpo di ballo costretto agli estremi del palcoscenico, nella sola funzione di occupare l’intera superfice lignea. Al centro una costruzione che nell’intenzione dovrebbe rappresentare le vie della città di Siviglia e qualche casupola ai lati, con delle fanciulle ad affacciarsi alle finestre. Sul fondo rimane il nulla, spogliato nelle ultime edizioni dai suoi elementi. Anche nel secondo atto, quando l’impianto registico diventa dinamicamente più interessante e funzionale all’anfiteatro, Kovatchev mantiene la concertazione su buoni livelli, rivelando alcuni slanci d’impeto che non ricordavamo e che, chi scrive e il pubblico, hanno dimostrato di apprezzare con convinzione. Sono infatti da segnalare numerosi applausi a scena aperta e sulle code orchestrali, che potevano sembrar fastidiosi solo per gli impenitenti monomaniaci della semicroma eseguita in pianissimo. L’orchestra palesa la sua buona qualità –specialmente negli archi- con un’esecuzione molto sentita dell’entr'acte. Assume una bella continuità anche la completezza del terzo atto, da taluni considerato disutile, ma, in realtà, pienamente inserito e necessario al dipanarsi di una vicenda che si sarebbe conclusa con un epilogo tragico.
La sera della prima, in tutta sincerità, molti fra i presenti avevano dato segni di insofferenza innanzi alla vacua insipienza della concertazione di Xu Zhong. Kovatchev, al contrario, è stato molto bravo a cogliere il desiderio del pubblico, perché l’Arena (ed è una fortuna incredibile per il Comune di Verona averla a disposizione) non è il luogo del purismo filologico, ma un luogo che si mantiene vivo grazie alla sua magia unica e all’effetto che sa andare oltre ciò che accade sul palcoscenico, fino a scatenare il lieto sorriso dei presenti (in maggioranza stranieri) che non hanno nessuna voglia di contorcersi nevroticamente anche nel tempio delle fiabe e hanno voglia di scatenare il loro entusiasmo. L’entusiasmo, in potenza, alla prima c’era eccome, ma era stato tristemente affossato. Il 9 luglio ha potuto, finalmente, scatenarsi con fragorosi applausi ritmati nella grandiosità del grande coro “À deux cuartos! À deux cuartos!” Deve piacere, è vero, ma se questo accadesse, ossia che si liberasse il sorriso dei bimbi innanzi ai pacchetti posti sotto l’albero di Natale, forse sarebbe il caso che ci si ponesse anche qualche domanda a proposito dell'aridità senile galoppante, purtroppo, nell’animo di molti appassionati fra le nuove generazioni, più legati degli anziani alle regie vetuste e superate che ammorbano alcuni dei nostri teatri nazionali, nonché a integralismi musicologici insensati. Uscendo dall'anfiteatro è da notare come numerose persone, dall’anagrafe non più verde, camminassero gioiosi canticchiando "L'amour est un oiseau rebelle", o altri brani celebri, mentre figuri ombrosi dai natali ben più recenti si mostravano corrucciati perché il suono di un controfagotto (con il vento e all’aperto) non era perfetto come nella sua registrazione di settanta anni fa. Verrebbe da chiedersi chi sia il vecchio e chi il giovane.
Nella compagnia di canto abbiamo avuto la bellissima scoperta del mezzosoprano rumeno Carmen Topciu, la quale esibisce una grandissima preparazione musicale. La voce non è sicuramente enorme, proveniendo lei da un repertorio principalmente belcantistico, ma questa caratteristica viene superata grazie a un’ottima proiezione del suono, all'accurata gestione dei fiati e a un’emissione pulita. A questo va ad assommarsi un gran gusto nel fraseggio, unito a una dizione precisa. La Topciu interpreta benissimo anche scenicamente il ruolo eponimo e, nel suo caso, omonimo. La resa scenica, infatti, è gustosamente raffinata, gli accenti musicali non sono mai eccessivi, ma risultano insolenti e passionali, al pari delle movenze, sensualmente zingaresche. Da segnalare la bella interpretazione (scenica e vocale) del duetto con Don José “Je vais danser en votre honneur” e l’arioso del terzo atto “En vain pour éviter les réponses amères".
Al solito superlativa la Micaëla di Irina Lungu, che rende giustizia a questo personaggio ingiustamente mal considerato, conferendo alla fanciulla quella personalità che sta in ogni verso e in ogni nota. Splendida la sua interpretazione del duetto “Parle-moi de ma mère!” e dell’aria “Je dis que rien ne m'épouvante”, durante la quale traspare tutto il coraggio superiore della giovane, un coraggio molto più femminile di quello di Carmen: non le manca un previdente raziocinio, ma è indomita nel domandare a Don José di accorrere al capezzale della madre morente. La Lungu è perfetta nel pronunciare avec autorité (secondo l’indicazione del libretto) la frase “Une parole encore” e tristement gli struggenti versi: “ce sera la dernière! \ Ta mère, hélas! \ ta mère se meurt... et ta mère \ ne voudrait pas mourir sans t'avoir pardonné!”
È sempre un piacere ascoltare l’interpretazione straordinaria di un personaggio sentimentalmente straordinario da parte di un’artista straordinaria.
In netto miglioramento anche Dalibor Jenis (Escamillo) che interpreta un Toreador efficace, con gran partecipazione sulla scenica e nel fraseggio. Probabilmente la tessitura piuttosto grave non è la più adatta alle sue caratteristiche vocali, ma il personaggio che viene fuori è di grande effetto. Probabilmente alcune perplessità sorte in occasione della prima erano da imputarsi all’esiziale concertazione di Xu Zhong.
La prova di Jorge de León continua a destare alcune perplessità, anche se in misura inferiore se paragonate alla prima rappresentazione. Il suo canto è piuttosto avaro di sfumature e, soprattutto nei duetti, soffre la personalità interpretative delle sue ottime colleghe. L’intonazione non è sempre precisa e lo squillo alterno, a causa di una posizione del suono troppo indietro. È un peccato, in quanto, quando l'emissione viene centrata correttamente, la sua resa migliora.
Molto bene tutti i comprimari, Madina Karbeli (Frasquita), Alice Marini (Mercédès), Gianfranco Montresor (Dancaïre), Paolo Antognetti (Remendado), Gianluca Breda (Zuniga) e Marcello Rosiello (Morales).
Il corpo di ballo, coordinato da Gaetano Petrosino, interpreta molto bene la quadriglia del quarto atto e le coreografie di El Camborio (riprese da Lucia Real), meglio accompagnati dall’orchestra, al pari dei colleghi cantanti. I primi ballerini erano Alessia Gelmetti, Teresa Strisciulli, Amaya Ugarteche, Evghenij Kurtsev e Antonio Russo.
Ritroviamo con piacere il coro, diretto da Vito Lombardi, capace di dar prova di un’ottima forma vocale, fraseggio incisivo, colore pastoso e bella omogeneità. Fra le componenti si fa preferire, in particolar modo, quella femminile. Molto bene anche il coro di voci bianche A.LI.VE. diretto da Paolo Faciancani.
La regia e le scene erano di Franco Zeffirelli e i costumi tradizionali come più non si potrebbe di Anna Anni.