Ciro incoronato
di Roberta Pedrotti
Torna Ewa Podles nell'allestimento di Ciro in Babilonia curato da Davide Livermore ed è ancora un meritatissimo trionfo, grazie anche dalla splendida concertazione di Jader Bignamini e alle prove parimenti ottime di Pretty Yende e Antonino Siragusa.
PESARO, 10 agosto 2016 - Dopo una Donna del lago [leggi] che non ha mancato di sollevare, fra gli apprezzamenti, qualche dubbio e un Turco in Italia [leggi] non risolto teatralmente nonostante alcune buone prove degli interpreti, ecco che l'unica ripresa in programma, il Ciro in Babilonia, chiude in bellezza le tre prime operistiche del Rossini Opera Festival 2016: nessuna perplessità, stavolta, solo appalusi.
E sì che l'idea di ritrovare in piena forma Ewa Podles era una speranza che per scaramanzia si preferiva sussurrare pian piano, già paghi dell'eccellente performance del 2012 nei panni del Gran Re persiano. La cantante polacca è, però, un'artista vera e una donna intelligente, conosce benissimo l'opera e le proprie forze e, accettando di tornare a Babilonia via Pesaro sapeva bene quel che faceva. Non è un tributo alla carriera l'ovazione che le viene tributata, ma l'esplosione di entusiasmo per la sua grandezza qui e ora: ascoltando il nerbo virile di un registro grave dai riflessi autenticamente baritonali e certi stranianti acuti cristallini si ha la netta sensazione di sentir riecheggiare le voci doppie delle ermafrodite armoniche ottocentesche, eredi dei castrati nella compresenza di maschile e femminile, di contralto e soprano in un'unica voce che fiorisce, in colori diversi e screziati, agli estremi della tessitura. Il fenomeno di una voce antica va di pari passo con l'intensità espressiva, con l'autentica regalità ancor più toccante nel pathos del re, dello sposo e del padre, scolpita nell'imponenza del guerriero e del legislatore. Non v'è nota, colore, gesto musicale che non sia pensato e porto con nobile naturalezza, sicché mai si potrebbe imputare una scelta di legato o staccato, una variazione o una cadenza all'opportunità meramente vocale: tutto ha una sua precisa consequenzialità teatrale, tutto è in simbiosi profonda con la musica e il testo. Una vera Signora del Belcanto, che, senza perdere un briciolo della sua allure sovrana né del suo pathos commuovente, riesce anche a concedersi qualche sottile autironia. Chapeau.
Naturalmente la grandezza di un'artista, l'autentica dimensione di una diva si constata anche nella misura in cui sa mettersi in gioco e far squadra con i colleghi, i quali – tutti rinnovati rispetto alla produzione originale – non sono mai stati messi in ombra, brillando bensì in un firmamento più scintillante che mai.
Jessica Pratt passa il testimone del serto di Amira a Pretty Yende, che gli rende il giusto onore con un virtuosismo degno della bella regina di Persia. Non solo si muove con disinvoltura fra acuti e sovracuti, fioriture, picchettati, filati, ma lo fa sempre con ottima proiezione, gusto e musicalità, imponendosi come una delle voci più interessanti di questo Rof, un esordio pesarese che speriamo foriero di copiosi sviluppi. I progressi ben evidenti rispetto alle prime esperienze rossiniane con l'Accademia della Scala lasciano, peraltro, immaginare un continuo lavoro di studio che potrà portarla a conferire smalto ancor superiore alla già brillantissima coloratura e ad affinare maggiormente l'articolazione della lingua italiana.
La corona assira di Baldassarre dopo il capo di Michael Spyres cinge ora quello di Antonino Siragusa, uno dei tenori in attività con più ruoli rossiniani affrontati integralmente (forse solo Gregory Kunde può contendergli la palma). Questa volta, dopo il tracotante Nerone alla Peter Ustinov del 2012, scopriamo un'altra chiave di lettura del personaggio, un re e condottiero autoritario, sicuro di sé e improvvisamente corroso dalla passione per Amira, che scatena una serie di eventi nei quali ogni certezza si sfalda fino a sbriciolarne il potere e condurlo alla morte. La franchezza della proiezione conferisce il giusto spessore a una vocalità luminosa e fiera, sicurissima in alto, ben avvezza alla coloratura espressiva, attenta alla parola e al senso soprattutto della grande aria di follia del secondo atto, in cui il tiranno scopre anche sentimenti paterni, rendendosi quindi dolorosamente affine al proprio nemico.
Mentre questo trio ottimamente assortito garantisce le acclamazioni del pubblico e l'alta temperatura drammatica, le parti di fianco – diversamente insidiose, vuoi per le aspre esigenze anche in termini d'estensione di quelle maschili, vuoi per l'essenzialità della celebre aria mononota di Argene – sono sostenute da Alessandro Luciano, Arbace, Isabella Gaudì, Argene, Oleg Tsybulko, Zambri, e Dmitri Phkaladze, il profeta Daniello. Nondimeno, il Coro del Comunale di Bologna agisce come un gruppo di veri e propri personaggi distinti e caratterizzati, offrendo anche tutta la qualità musicale che si possa desiderare ai suoi interventi.
E quanto a qualità musicale non si può chinare il capo di fronte alla concertazione di Jader Bignamini, la terza bacchetta d'oro di questo Rof e, forse, persino la più eclatante. Non solo, a differenza di Mariotti e Scappucci, il maestro cremasco ha alle spalle esperienze rossiniane limitatissime, ma si trova anche a concertare una partitura giovanile dai pregi assai meno evidenti rispetto agli altri due titoli in cartellone. Proprio tali pregi portati allo scoperto da Bignamini hanno reso questa una prima da ricordare. Con polso incisivo e misura belcantista, con la gravità dell'azione sacra e il dinamismo del dramma in musica, rivela una strumentazione raffinata, una sensibile pastosità timbrica, un gioco sottilissimo di richiami dinamici, ritenuti, rubati che respirano sempre con il canto, sostenendolo senza adagiarsi in un accompagnamento passivo, elevandosi al contrario in un magnifico senso di unitarietà nella musica e nel dramma. Raramente avevamo ascoltato l'orchestra del Comunale suonare così bene e valorizzare così pienamente la scrittura di questo giovane Rossini: Bignamini dimostra di amare il belcanto e i fatti dicono che l'amore è ricambiato, che esiste un'affinità innata con questo linguaggio e che sarà una gioia per tutti rivederlo spesso alle prese con il nostro amato Gioachino.
Quanto, infine, all'allestimento di Davide Livermore, con scene e luci di Nicolas Bovey, costumi di Gianluca Falaschi e video di D-Wok, non se ne potrà che ribadire tutto il bene già detto in passato [leggi la recensione del DVD]. Oggi l'impressione positiva è ancor più enfatizzata dall'accostamento immediato con Il turco in Italia in salsa felliniana, rispetto al quale questo Ciro in Babilonia ispirato al cinema muto (e alla Rosa purpurea del Cairo di Allen) vanta un'autonomia di ricezione, una compiutezza di pensiero, un'eleganza di realizzazione immensamente superiori. Siamo di fronte a un grande spettacolo che, senza sovraccarichi o forzature, sintetizza dramma e disincanto, pathos e ironia cogliendo le affinità profonde di topoi, vezzi, modi e tempi espressivi fra melodramma e cinema (soprattutto delle origini). Per di più risolve finalmente con naturalezza, proprio in virtù di questa sorta di montaggio filmico, un finale che il libretto scioglierebbe in maniera sbrigativa ai limiti dell'incomprensibile: un fulmineo “arrivano i nostri” che ribalta la situazione in un lampo di recitativo.
Applausi, applausi, applausi: questa sera si festeggia, al teatro Rossini.
foto Amati Bacciardi