Arcadia bifronte
di Roberta Pedrotti
La proposta dell'Aminta del Tasso rappresentato con gli intermedi dell'Orfeo dolente di Domenico Belli, composti nel 1616 per la stessa favola pastorale e in prima rappresentazione moderna, affidata dalla Sagra Malatestiana a un gruppo di ricerca teatrale appare riuscito a metà, privilegiando nettamente - anche se con esiti interlocutori - il testo tassesco rispetto al recitar cantando del Belli, servito, però, da un'eccellente lettura musicale.
RIMINI, 23 settembre 2016 - Da qualche anno a questa parte la Sagra Malatestiana di Rimini ci ha piacevolmente abituati a intelligenti produzioni sperimentali che vedono titoli rari (per lo più d’epoca barocca o lavori degli ultimi decenni) affidati alle cure di gruppi di ricerca teatrale nello spazio suggestivo della sala Pamphili del complesso agostiniano cittadino. Abbiamo, così, potuto apprezzare una notevolissima elaborazione del King Arthur di Purcell e Dryden da parte di Motus [leggi la recensione] e l’Hyperion di Maderna nell’intensa lettura di Muta Imago [leggi la recensione]. Quest’anno è la volta di Luca Brinchi e Daniele Spanò, registi, scenografi, video maker e light designer chiamati a mettere in scena un doppio spettacolo alla maniera antica: l’Orfeo dolente di Domenico Belli, di cui si celebrano i quattrocento anni esatti con questa prima rappresentazione teatrale moderna, riappare infatti nella sua forma originaria di intermedi alla favola pastorale Aminta di Torquato Tasso (1573). Dapprima brevi sequenze musicali e tersicoree intercalate alle sequenze del testo principale, gli intermedi crebbero d’importanza nel corso del XVI secolo fino a raggiungere una complessità, una dignità e un’autonomia che sfociano naturalmente nella nascita del melodramma, giovane genere al quale non è difficile affiliare questo stesso Orfeo dolente.
Dolente perché, nel testo ricavato dal Chiabrera, questo semidivino cantore si presenta in sostanza impotente e la sua è la storia dell’elaborazione di un lutto, dall’estremo infruttuoso tentativo d’impietosire le potenze infere dopo aver già infranto il primo decreto alla sublimazione dell’amore terreno nella dedizione all’arte e alla poesia incarnate dalla musa Calliope, sua madre, e dalle tre Grazie. Un percorso ideale che si affianca con felice parallelismo, nel disegno originario, con quello più sensuale di Aminta, che da una condizione parimenti di patimento amoroso ottiene infine consolazione fra le braccia di Silvia. Due variazioni complementari sul tema del desiderio e dell’insoddisfazione, dell’istinto, della natura, della cultura, della sublimazione.
Per chi si trovi a mettere in scena questi due testi intrecciati, diverse sono, naturalmente, le strade percorribili, o verso una netta giustapposizione e indipendenza fra le scene alternate, o, viceversa, verso un’integrazione dialettica. Brinchi e Spanò puntano alla reciproca autonomia di Orfeo e Aminta, ma la realizzano sbilanciando troppo le loro attenzioni verso il testo del Tasso, sicché l’impressione è quella che, da parte dei due artefici visivi, l’opera di Belli sia stata più che altro subita come ciclica interruzione del loro lavoro sull’Aminta. Lo si avverte, non senza fastidio, quando, confinati i musicisti in una riserva nella parte posteriore della scena, Plutone afferma le solenni leggi dell’Oltretomba mentre, noncuranti, Brinchi e Spanò gli passano davanti e lo impallano completamente, intenti a sistemare schermi e altra attrezzeria per il quadro successivo della loro favola pastorale. Questa è prosciugata nel testo con intento cupo e pessimista: “S’ei piace ei lice” come motto dell’età dell’oro è un’illusione utopistica, il lieto fine può essere garantito solo dalle convenzioni sociali e dal controllo razionale, mentre lo stato di natura porta di per sé alla liberazione degli istinti fino agli esiti più bestiali e violenti. Per questo, forse, i desideri di Aminta (Lorenzo Arzuini, pallido e riccioluto) si mescolano ai pensieri e all’apparizione del Satiro (il culturista Davide Pioggia), quasi fosse un’incarnazione ferina e feroce degli impulsi del gentile pastorello, l’altra faccia e l’alter ego del protagonista. Così, nessuno scampo, nessuna composizione è possibile: il finale resta sospeso con Aminta sull’orlo del baratro e Silvia (la diafana Clelia Scarpellini) che fugge nella foresta fra lupi che in realtà sono barboncini, immagini pensate per giocare sull’ambiguità fra percezione di ferocia e di natura rassicurante. I simboli, però, rischiano di perdersi in una struttura, seppur essenziale, fragile e frammentaria, fra dettagli e iterazioni che non costruiscono un vero e proprio mondo organico e coerente. Ci si stanca abbastanza in fretta (forse l'effetto sarebbe diverso senza le interruzioni per l'Orfeo? di certo la sensazione che i due spettacoli si disturbino un po' a vicenda c'è...) e poco aggiunge la performance di Luca Brinchi che, in apertura, mostra di tatuarsi su un dito il motto “s’ei piace, ei lice”, poco i megafoni oscillanti che sembrano presi dal set di un vecchio film di fantascienza e pronti per essere rispolverati da Terry Gilliam senza prendersi altrettanto sul serio; le elaborazioni migliori si giostrano sul piano delle proiezioni video, cui è demandata gran parte della rappresentazione con alcune soluzioni tecnicamente pregevoli. Insomma, anche al di là della delusione per una mancata maggior attenzione teatrale all’Orfeo, il lavoro non pare indimenticabile. Citiamo, per completezza, le musiche di Franz Rosati, la drammaturgia di Erica Z. Galli e Martina Ruggeri, le voci di Francesco Bonomo, Giorgia Visani e Michael Schermi, registrate come tutte le prove attoriali eccettuati Pioggia, Brinchi e Spanò.
Ci si consola comunque con un’eccellente esecuzione dell’Orfeo, in forma sostanzialmente oratoriale – ma la collaborazione con Gucci impreziosisce soprattutto le mises femminili – e concertata in maniera superba al cembalo da Francesco Cera. Il recitar cantando di Belli sa essere perfino aspro nel suo aderire alla declamazione con una pari articolazione delle parti, di intervalli, dissonanze, prosodia ritmica: non si enfatizzano e si denudano gli spigoli, bensì si coglie la nobiltà di quest’espressione forte ma non volgare né eccessiva, il suo iscrivere in un preciso linguaggio sonoro una dimensione mitica in cui il dolore non è negato, astratto, bensì sublimato in una retorica musicale che non mortifica lo strumentale, integrandolo con intelligente essenzialità alla parola intonata. Per questo meritano una lode speciale, con Cera, anche i violinisti Marco Serino e Prisca Amori, il violista Marco Palmigiani e il violoncellista Andrea Lattarulo, Silvia de Maria al Lirone e Flora Papadopoulos all’arpa rinascimentale.
Protagonista è Riccardo Pisani, che possiede il bel timbro virile richiesto da questo repertorio ed è capace di dominare bruniture e inflessioni dai toni avorio con musicalità rifinita e disinvolta. Il suo Orfeo non si scompone alla ricerca di effetti espressivi, concentrandosi su una più proficua misura della parola, del colore, e dell’accento. Sicuramente potrà approfondire l’eloquenza e arricchire il suo bagaglio retorico, ma data la giovane età non si può non lodare il gusto e ravvisare un futuro radioso su questa strada. Walter Testolin è un basso dai riflessi metallici particolarmente adatti a rendere il declamato abissale di Plutone, unendosi poi al coro in ben calibrato amalgama con Andres Montilla-Acurero e Alberto Allegrezza, tenori brillanti, anch’essi musicisti chiari e limpidi dicitori, ben distinti per timbro e personalità. Assai ben assortito anche il terzetto femminile delle Grazie: Letizia Calandra, Santina Tomasello e Lucia Franzina. Meno smaltata la vocalità contraltile di Damiana Pinti, Calliope dal temperamento piuttosto introverso e dal fraseggio più evanescente, quasi a suggerire l’impossibilità della consolazione materna per il lutto di Orfeo.
Accoglienza piuttosto tiepida, al termine: peccato, se l’Aminta in effetti non ha acceso gli animi, l’Orfeo avrebbe meritato di più e ci auguriamo giunga un’incisione a ricordarlo.