La vena tenera
di Francesco Lora
Nell’Elisir d’amore alla Fenice non v’è rivisitazione teatrale né divi del belcanto: con Morassi, Dubrovskaya, Misseri, Romano e due Montanari, tutto è imperniato sulla miglior tradizione all’italiana.
VENEZIA, 24 settembre 2016 – Tra i più fortunati investimenti del Teatro La Fenice v’è L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti con regìa di Bepi Morassi e scene e costumi di Gianmaurizio Fercioni: l’allestimento, varato nel 2010, è oggi alla sua quinta ripresa sul palcoscenico veneziano, con dieci nuove recite dal 26 agosto al 9 ottobre. In questa lettura teatrale, e anche dopo decine di rappresentazioni con avvicendamento d’interpreti differenti, lo spettacolo trabocca di salute: ne è garante Morassi stesso, singolare caso di regista iperattivo sulla scena operistica, ma pressoché solo su quella lagunare; regista con una rara conoscenza della meccanica della commedia, della minuziosità della recitazione, del ritmo dell’azione in seno alla musica, così come pure della varia estrazione del pubblico (il melomane esperto, il turista curioso, l’abbonato sornione): ciascuno ha di che leccarsi i baffi. Ci s’intenda: questo Elisir d’amore è tutto coltivato nell’iconografia tradizionale, con la sua campagna e i suoi soldatini; ma proprio nel far piazza pulita di ogni rivisitazione o trasposizione esso torna a rivelare le inflessioni più riposte, la sua franchezza brillante, la vena tenera in quanto tale.
Dalle recite del 2013 si ritrova Stefano Montanari come concertatore: graffiante ed esplosivo nel repertorio barocco, del quale in primo luogo è specialista, qui usa ben altra umiltà di studio e lettura. Ne deriva un accompagnamento al canto che mai distoglie l’attenzione dalla scena, e una cura dell’evocazione ambientale tanto campestre, fine e scorrevole, quanto qui e là improvvisamente divertita dai paurosi scoppi in orchestra: un richiamo al mondo militare di Belcore, ma anche a una prassi che – saputa dominare in pesi, contrasti, equilibri e trasparenze – appartiene davvero all’uso strumentale della prima metà dell’Ottocento italiano.
Compagnia di canto senza divi ma con talento, così che al centro del lavoro rimane il testo in luogo delle individualità. Come Adina il soprano Irina Dubrovskaya, unica non italiana, sa trasformare la connaturata freddezza della prosodia in quella del personaggio, e poi via via scioglierla in modi più morbidi, trepidanti e sinceri, spiegando nel contempo un registro acuto sempre più luminoso, duttile e risonante. Qualche difficoltà invece, nel Nemorino di Giorgio Misseri, a spandere suono sufficiente in sala; l’eleganza del porgere rimane però fuori discussione, e così anche il proposito di nobilitare il sempliciotto: ben si addice dunque l’idea registica di rivelarlo capace di leggere e scrivere, nel firmare il contratto con Belcore. Quest’ultimo trova in Marco Filippo Romano un baritono di mezzi solidi e inclinazione brillante, sorvegliato nello stile anche quando la regìa inviti alla caricatura e quando il carattere autorizzi a modi gradassi e vanagloriosi. Magnifico, infine, il Dulcamara del buffo Omar Montanari: dell’arte comica egli possiede il segreto di evitare ogni eccesso, e anzi di ridurre al minimo retorica e gestualità; quel che resta è il fiorfiore del mestiere, dove tutto è ingrediente necessario, banco di prova per la definizione di una psicologia quand’anche bizzarra, oltre che controprova di un’organizzazione vocale sollecita e prestante.