Manon, l'anima e il feticcio
di Andrea R. G. Pedrotti
Per la prima volta nella storia Manon Lescaut di Puccini viene rappresentata al teatro Bolshoj di Mosca. Se non convince del tutto la messa in scena, non si poteva chiedere di meglio per quanto riguarda i due protagonisti: Anna Netrebko e Yusif Eyvazov, che presentano in patria l'opera nella quale hanno trionfato solo pochi mesi fa a Salisburgo. Sul podio, per la prima volta nella storica sala della capitale russa, Jader Bignamini.
MOSCA, 16 ottobre 2016 - Se venendo a Mosca il desiderio fosse quello di appagare il proprio spirito con la rimembranza degli scritti di Aleksandr Sergeevič Puškin o di Fëdor Dostoevskij, non resterà deluso dall'atmosfera cittadina, ancora ricca dei tesori del grande impero russo e da una presenza notevole di teatri, tutti attivi, dei quali è arduo mantenere il conto.
Quello che viene a mancare è la passionalità dello spirito del romanticismo letterario che si sviluppò in queste terre. Tuttavia la stagione in corso è molto ambiziosa e si inquadra nell'ottica di quello che pare un desiderio di promozione del Teatro Bolshoj. È incredibile pensare che oggi per la prima volta che questo capolavoro di Giacomo Puccini, Manon Lescaut, andasse in scena nella sala moscovita.
L'ambizione del teatro si riverbera nella scelta dei due protagonisti (Anna Netrebko e Yusif Eyvazov), probabilmente i due migliori interpreti attualmente possibili per il titolo il cui successo segnò l'ascesa e l'affermazione di Puccini.
Lodevole l'idea di proporre una messa in scena che non fosse banale e cercasse di guardare oltre, verso nuovi schemi comunicativi. Purtroppo è stata proprio questa, però, il punto debole della produzione e la breve intervista riportata nel programma di sala invece di vere e proprie note di regia, nel suo contenuto, chiarisce poco dell'idea generale.
Il tutto si ambientava in una sorta di paese dei balocchi, riconducibile più a un libro di Stephen King che a Carlo Collodi. Nel primo atto, sullo sfondo, abbiamo una bianca città dai palazzi stilizzati, posta su un grande piano inclinato. Il coro è in abiti anni '50, mentre la presenza del corpo di ballo e le prime intenzioni del regista, Adolf Shafiro sembrano inquadrare l'incontro fra Manon e il cavaliere Des Grieux in un contesto irreale. Geronte è in abiti completamente neri, poveri di stile e raffinatezza, mentre Manon è l'unico personaggio vestito di bianco e lo sarà solo per questo primo atto, forse a simboleggiare la perdita della purezza nel prosieguo dell'opera. Des Grieux sembra uno spazzacamino, che, vagando fra i bianchi tetti parigini, intona “Tra voi belle, brune e bionde”; nel mentre si scorgono verdi gambe di ballerine in abiti da elfi dalla foggia del tutto simile a quella delle recenti divise del personale Alitalia.
I piani mobili del palcoscenico non facilitano l'interazione fra i protagonisti, anche se i due interpreti d'occasione non faticano a trasmettere emotività.
Elemento ricorrente, con il senso d'irrealtà, è il feticcio: bambola che giunge sulla scena in mongolfiera (lo stesso mezzo che consentirà la fuga dei due amanti) e viene vestita di nero da Geronte, per poi dominale la scena nel secondo atto con grandi sfere bianche e nere rotolanti sul palcoscenico, che saranno poi identificate con delle perle. Qui Lescaut si presenta a sua volta in vesti corvine, con un teschio di lustrini sulla giacca, mentre Manon è fasciata da un abito quasi identico a quello dell'atto precedente, ma della medesima tinta di quello del fratello.
Des Grieux appare nei ricordi della disinibita fanciulla in un grande specchio ovale che riflette i protagonisti in proscenio e mostra la città del primo atto sul fondo del profondissimo palcoscenico del Bolshoi.
L'enorme bambola in scena rappresenta Manon (la donna oggetto); ella viene punzecchiata da una gran serie di insetti giganti e circondata da numerose comparse con maschere raffiguranti animali delle foreste del Nord. Interessante l'idea di far afferrare a Manon le grandi perle della collana della bambola, causando così il ritardo della fuga e distruggendo l'immane gioiello.
L'atto più interessante poteva essere il terzo, grazie a pochissimi elementi scenici e alcune sedie di lato da cui una piccola folla, comprendente anche Des Grieux, osserva la deportazione fra soldati in divisa sovietica. Il problema è stato che Manon viene portata sulla scena da una botola assieme a un nano, una culturista, un paio di travestiti, et similia. Tutti queste sono figure presentate in maniera estremamente caricaturale. L'effetto è quello di una scenetta comica con un climax ascendente di figure sempre più grottesche ed eccessive nell'aspetto, sicché il dramma della musica viene svilito dalle comprensibili risate del pubblico, palesemente distratto.
Interessante l'idea di utilizzare come imbarcazione il palco stesso, che si spezza in due parti diventando una sorta di chiatta per i prigionieri.
Anche il quarto atto è problematico, a causa della posizione degli artisti. È bella l'idea d'un grande fondale scuro sul quale vengono proiettate le lettere e i pensieri di Manon, in un'atmosfera affine all'autentico romanticismo russo. Tuttavia i problemi sono musicali e vengono risolti solo dalla grandezza dei due artisti. Il palco del Bolshoi, come detto, è enorme: Manon e Des Grieux sono costretti a cantare avanzando dal fondo della scena (molto lontano dal proscenio) in un ambiente spoglio, con le quinte quasi aperte. Questo crea difficoltà nella proiezione, perché la voce si disperde prima di arrivare al pubblico. Quando i protagonisti giungono al termine della camminata scende un sipario nero, ma loro hanno già smesso di cantare e l'eccellente acustica del Bolshoi risulta ormai inservibile. Le scarne scene erano di Maria Tregubova e le luci di Damir Ismagilov.
Note liete, al contrario, sul piano musicale.
Nel ruolo del titolo, come qualche mese fa a Salisburgo [leggi la recensione], abbiamo avuto il piacere di ritrovare la miglior interprete attuale del ruolo pucciniano, ossia Anna Netrebko. Come sempre l'artista russa è assolutamente impeccabile per tutta la durata dello spettacolo; nonostante le difficoltà che l'impianto scenico potrebbe causare alla propagazione del suono, non v'è un solo sussurro che non giunga nitido alla sala. La proiezione è perfetta, al pari dell'eleganza dell'attrice. Le note sono cesellate ad arte, così come il fraseggio. La Netrebko si dimostra ancora una volta straordinaria nel rendere le variazioni psicologiche del personaggio: frivola all'inizio e sempre più sofferente e consapevole, man mano che il dramma si compie. “In quelle trine morbide" viene eseguita con dolcezza, legato ed espressione senza pari. È magistrale nel duetto “Tu, tu, amore? Tu?!”, ma il suo atto migliore (se di atto migliore si può parlare) è il quarto, con il crescendo emotivo di uno straziante “Sola... perduta... abbandonata”, fino alla grandiosità di un imperioso e diperato “Non voglio morire!”.
Al suo fianco, e sugli stessi livelli, Yusif Eyvazov (Des Grieux). Il tenore azero non smette di stupire per i suoi progressi da quando abbiamo avuto la sorte di recensirlo come Turiddu nella Cavalleria rusticana a Verona, forse la miglior produzione assoluta degli ultimi vent'anni al Filarmonico [leggi la recensione].
Eyvazov è pura espressione di ordine e passionalità, i centri sono sempre più morbidi e il cantabile acquisisce ogni volta di più raffinata espressione. Se è eccellente il suo primo atto, con un “Donna non vidi mai” di altissimo livello, elegante elegia dello stupore nel trovare avanti a sé la donna sognata, egli diviene stupefacente nel porgere e nell'accento di frasi come “ah tentatrice!”, pronunziato la prima volta con il vigore di chi vuole convincere se stesso a resistere e sfumato la seconda, anticipando l'abbandono alle malizie seducenti di Manon. Nel terzo atto, tuttavia, abbiamo ascoltato il momento che da solo potrebbe valere il prezzo del biglietto. Nell'epoca contemporanea nessun altro tenore può avvicinarsi al pathos trasmesso da Eyvazov nell'esecuzione di uno struggente “No, pazzo son”. Lo squillo è luminoso, ma è il fraseggio a stupire e a emozionare. Nella sua esecuzione si riscontra una composta drammaticità straziante e commovente. Da rimarcare anche la gestione dei fiati e la freschezza nel pronunziare la frase “Vi chiedo pietà, ingrato non sarò”, eseguita in un unico fiato perfettamente legato, con puntature acute e dizione ineccepibile.
Bene musicalmente il Lescaut di Elchin Azizov, che si dimostra anche attore abile, padrone del mezzo vocale e di efficace presenza scenica. Peccato che il suo personaggio perda di spessore nel primo e nel terzo atto, quando il regista lo lascia colpevolmente troppo isolato, non rendendo giustiza a frasi importantissime come “Al diavolo l'America, Manon non partirà”.
Da sottolineare con estremo piacere l'ottimo intervento, nel secondo atto, del Musico, interpretato dal mezzosoprano Yulia Mazurova, la quale, nonostante la brevissima parte, lascia un eccellente ricordo.
Completavano il cast con onore Alexander Naumenko (Geronte), Marat Gali (maestro di ballo), Goderdzi Janelidze (un oste), Vaery Gimalov (sergente degli arceri), Vladimir Komovich (comandante di marina), mentre è meno convincente Bogdan Volkov (Edmondo/un lampionaio).
Si comporta al meglio il coro del teatro Bolshoj, diretto da Valery Borisov, sia musicalmente sia nel cimento scenico. Il complesso moscovita, inoltre, vista l'indiscutibile avvenenza dei suoi elementi femminili può essere partecipe all'azione nel tentar vanamente di sedurre Des Grieux. Questo compito spetta, tuttavia, al corpo di ballo del teatro Bolshoi, che ben interpreta le piacevoli coreografie (dal gusto sicuramente più raffinato rispetto alla regia) di Tatiana Baganova. Spetta una lode ai teatri russi, come per quelli austriaci, per la valorizzazione del corpo di ballo che consente una dinamicità alla scena che non potrebbe essere possibile mediante l'ausilio di semplici comparse. Inoltre, trattandosi di elementi stabili, con contenimento dei costi nelle produzioni liriche e garantendo al pubblico un'offerta artistica di doverosa completezza.
Sul podio abbiamo assistito al debutto nel teatro moscovita di Jader Bignamini, che riesce nell'ardua impresa dell'organizzare quello che forse è l'unica massa artistica migliorabile del teatro Bolshoj. Si tratta di un'orchestra di ottimi musicisti (specialmente gli ottoni), ma poco inclini all'abbandono espressivo. Un'orchestra di ingegneri più che di artisti. Bignamini, con inappuntabile tecnica, riesce tuttavia a trovare una chiave di lettura adeguata a dettare una linea esecutiva per il futuro. Infatti, il concertatore punta a sottolineare una passionalità che sappia coniugare la grandezza dei paesi dell'Est e il sentimento italiano. Tutte le sezioni sono equilibrate con ottime sonorità in tutte le chiuse d'atto e il crescendo della qualità esecutiva è palese man mano che la scrittuta pucciniana diviene più drammatica.
Al termine grandi applausi per tutti da parte di un pubblico che per la prima volta scopriva il capolavoro di Giacomo Puccini.
foto Damir Yusupov