Le ali di Rosmonda
di Roberta Pedrotti
Entusiasma a Firenze la prima ripresa italiana in tempi moderni di Rosmonda di'Inghilterra. Opera tesa e crudele, è concertata a meraviglia da Sebastiano Rolli, forte di un cast assolutamente ideale con Eva Mei e Jessica Pratt primedonne rivali e Michael Spyres sposo e amante conteso affiancati da Nicola Ulivieri e Raffaella Lupinacci. La bravura degli interpreti e la perfetta presenza scenica non fanno rimpiangere troppo la forma oratoriale.
FIRENZE, 15 ottobre 2016 - “Lucia intonò, con aria fiera, la sua cavatina in sol maggiore; si lamentava per amore, chiedeva delle ali.” Pochi sono i traduttori accorti di Flaubert che non inciampino nell’accurata descrizione della Lucie de Lammermoor cui Emma Bovary assiste a Rouen, ancor più raro che si faccia notare il riferimento a “Que n’avons nous des ailes”, la cavatina che nella versione francese sostituisce “Regnava nel silenzio” e che proviene dalla Rosmonda d’Inghilterra, opera la cui fama fino a oggi è rimasta legata proprio all’amore di tante primedonne per i trilli di “Perché non ho del vento”. Nessuna ripresa italiana, invece, si contava in epoca moderna prima dell’iniziativa congiunta per riportarla (in forma di concerto) nella Firenze dove aveva debuttato nel 1834 e (in forma scenica) nella Bergamo di Donizetti.
L’attesa è stata lunga, dunque, ma ben ripagata per una partitura affascinante quanto problematica: nello scegliere, ragionevolmente, di seguire la versione fiorentina (fatta salva proprio la celebre cavatina, che alla prima assoluta aveva pertichini di Arturo poi espunti) ci si è trovati, infatti, di fronte al problema di un finale rimaneggiato direttamente sull’autografo per la ripresa napoletana del 1837, che portava il titolo di Leonora di Guienna e si chiudeva con una cabaletta della nuova eroina en titre. Difficile, dunque, ricostruire con assoluta certezza quello strano epilogo originario, bruscamente ripiegato sullo spegnersi di Rosmonda trafitta senza nessun tributo alle convenienze teatrali, un po’ come avverrà di lì a poco con Marin Faliero, che lascerà la primadonna muta e attonita ad ascoltare l’annuncio della morte dello sposo in poche, perentorie, battute del coro. Oggi a chiudere la Rosmonda è lo sprezzante “Sono alfine vendicata. Trema, Enrico: io regno ancor!” di Leonora, ma chissà che non fosse il più audace pianissimo precedente a spegnere il dramma con l’ultimo respiro della fanciulla?
Comunque sia, il precipitare drammatico di Rosmonda ribadisce il genio teatrale di Donizetti, che giunge, insieme con Felice Romani, a una rielaborazione efficacissima del libretto già musicato da Coccia e gli conferisce un’energia incalzante. La vicenda dell’amante inconsapevole di Enrico II d’Inghilterra, intenzionato a ripudiare per lei la regina Leonora di Guienna, e dell’implacabile vendetta della sovrana procede in un crescendo di tensione amplificato da un labirinto ben calibrato di inganni e agnizioni: Rosmonda ignora la vera identità del suo amato, Clifford, padre di lei, ignora chi sia l’oggetto della passione del re, nessuno, tranne il paggio Arturo, sa che Leonora è al corrente di ogni cosa, ma anche Arturo s’inganna, presumendo di poter ottenere la mano di Rosmonda sottraendola all’ira sanguinaria della regina. Quasi senza un attimo di respiro, fra rapidi recitativi e appena tre tempi lenti (i cantabili della cavatina di Rosmonda e del suo duetto con Clifford, il Largo concertato del Finale I), scorre il primo atto in un clima incandescente, ora per l’impeto erotico del Re, ora per l’ansia montante intorno all’eroina eponima. Perfino l’esultanza iniziale del popolo che saluta il re intrecciando ghirlande floreali sfolgora vivacissima fra ottoni e percussioni in un clima decisamente militaresco.
Nel secondo atto si devono consumare le rese dei conti e si incrociano i duetti del re con la sposa e l’amante e delle donne rivali; Rosmonda, oggetto di mille pressioni, affronta l’amante con fierezza, non ne perdona l’insincerità e, se in un’ampia, arditissima scena sfiora la follia, pure risolverà di partire per sempre per rispetto alla Regina, che tuttavia le ha teso una trappola e la pugnalerà con gelida ferocia.
Anche senza un’azione scenica, la crudeltà impellente del dramma, il suo procedere labirintico e claustrofobico ma rapidissimo emergono grandiosi in questa serata fiorentina, concertata da Sebastiano Rolli, una delle migliori bacchette donizettiane emergenti. È suo merito, infatti, se la tensione incalzante non si fa frenesia, ma respira sempre fluida e necessaria, dipanando il discorso musicale con perfetta chiarezza, articolazione elegante e incisiva. I cantanti sono in condizione di esprimersi al meglio senza che il direttore si riduca a passivo accompagnatore: al contrario, Rolli indica un gusto condiviso e valorizza a dovere la scrittura orchestrale, nella quale i complessi fiorentini splendono degni della loro fama e lasciano ben intendere sia atmosfere affini ad altri titoli donizettiani di soggetto inglese, sia un tema di cui forse Verdi si ricorderà per Un giorno di regno.
Un cast migliore di questo sarebbe, poi, difficile immaginarlo, sotto ogni punto di vista: anche in concerto la scelta degli abiti, gli atteggiamenti, gli sguardi concorrono a disegnare i personaggi a tutto tondo, senza mai uscire dalla drammaturgia musicale. In particolare, felicissima di rivela l’accostamento di Eva Mei e Jessica Pratt nel ruolo delle rivali: omologhe per vocalità e repertorio d’elezione, ma in fasi differenti della carriera, incarnano alla perfezione il dualismo fra la matura regina e la giovane emergente che somiglia tanto a lei qualche anno prima. La particolarità di un’opera in cui si fronteggiano due primedonne affini per registro (per quanto una più prudente, l’altra più spericolata in acuti e sovracuti) e in cui una premedita e commette sulla scena il cruento omicidio dell’altra - uscendo, peraltro, trionfatrice su tutta la linea - si esplicita a meraviglia in questo confronto. Eva Mei si presenta, aureolata da una minacciosa chioma candida, in un sontuoso abito blu e dimostra cosa significhino classe e tecnica per plasmare la gelida determinazione di una donna potente accecata dalla gelosia: ecco che il timbro delle Adine e delle Norine si trasforma in uno strumento implacabile e perverso, sottilmente inquietante nel suo sardonico distacco. Jessica Pratt, pallida, bionda, dai fini tratti preraffaelliti, è una vera e propria Fair Rosamund, com’è chiamata nella tradizione inglese la sfortunata amante di Enrico II; di fronte alla regina è come la candida Mme de Tourvel di fronte alla marchesa di Montreuil nelle Relazioni pericolose. E canta splendidamente, in una parte che sembra scritta su misura per la sua voce e il suo temperamento: delicata e forte, oppressa e delirante, dolce, amorosa, dolente, ascende alle vette estreme del pentagramma, sfoggia trilli, colorature, messe di voce, filati quasi a far splendere nel cristallo l'anima di Rosmonda.
Merita di essere conteso da cotante rivali, Michael Spyres, un Enrico II semplicemente ideale, capace di cogliere in un ritratto coerente tutta l’ambiguità dell’uomo innamorato, del consorte fedifrago, del sovrano autoritario, dell’amante clandestino che differisce lo svelamento della verità. Padrone del vocabolario espressivo del belcanto italiano, dal canto duttile, morbido, ben tornito, articola a meraviglia il testo conferendo giusto colore a ogni frase, accentando con intenzione intelligente, legando, smorzando sempre con bello smalto nei centri, timbro giovane e virile, sovracuti spericolati quanto sorvegliati da gusto e musicalità: ecco il fascino intemerato del re d'Inghilterra, ecco il destino del tenore seduttore e sedotto.
Fiero e imponente è il Clifford di un Nicola Ulivieri in forma eccellente, dal canto morbido e perentorio; Raffaella Lupinacci, mezzosoprano acuto, risolve con classe la parte quasi contraltile del paggio Arturo, dipanando l’inquietudine del fedele braccio destro della regina perdutamente innamorato della sua rivale con il fascino di una caratterizzazione accorata quanto elegante e sottilmente ambigua.
Un plauso speciale va, poi, al coro, che non solo caratterizza alla perfezione il canto del popolo, dei cortigiani o dei sicari, ma gli conferisce anche concreta spazialità e vivida teatralità con colori e dinamiche studiati alle perfezione con Rolli e il maestro Lorenzo Fratini.
Per il pubblico è una festa, una serata entusiasmante e sigla l'ottimo successo di questo piccolo Festival belcantistico fiorentino: un'iniziativa culturale di alto profilo che speriamo possa ripetersi sempre a questi livelli.