Una Pechino senza stelle
di Pietro Gandetto
In scena al Donizetti di Bergamo la Turandot del Teatro Comunale di Modena. La concertazione di Carlo Goldstein non risolleva la deludente regia di Giuseppe Frigeni. Il cast vocale non convince.
Leggi la recensione del debutto a Brescia con Lilla Lee e Rubens Pellizzari nei ruoli principali
BERGAMO – 5 novembre 2016. Turandot è una sfida per ogni teatro. Un’opera satura di esotismo dalla prima all’ultima nota, in cui l’atmosfera, più che i personaggi, sono i veri protagonisti. Un’atmosfera che va ricercata non tanto nella resa del colore musicale locale (già presente grazie alle scale pentatoniche e alle altre “cineserie” pucciniane), quanto nella descrizione del clima fiabesco della Pechino imperiale, che è il fulcro stesso dell’opera. Oggetto d’indagine non è tanto la psicologia dei personaggi, quanto la rappresentazione di un grande affresco corale, all’interno del quale s’inseriscono figure quasi stilizzate che esistono in quanto parte di quel fantastico mondo dell'antica Cina, che sostituisce la struttura drammatica stessa.
Su queste premesse, la rinunciataria regia di Giuseppe Frigeni non convince. Il palazzo di Pechino scompare e viene sostituito da pannelli laterali che poco o nulla richiamano la solennità e i fasti dell’impero mandarino. Viene eliminato ogni riferimento alla Cina, salvo il brevissimo utilizzo di tre drappi bianchi con ideogrammi cinesi insufficienti alla creazione dell’atmosfera voluta dall’autore. Il contesto di riferimento, le tinte allucinate e livide e l’atmosfera onirica tipiche di queste pagine pucciniane sono sacrificate in favore di una sintesi concettuale che stentiamo a comprendere. La sintesi ha diritto di esistere come cifra stilistica, ma dev’essere il frutto di un percorso comprensibile e non di un’apodittica privazione degli elementi essenziali di un dramma, come Turandot, in cui la partitura e il libretto sono zeppi di indicazioni, note e richiami.
Non si capisce perché il Principe di Persia venga messo in scena già morto, sospeso nel vuoto. Non si capisce dove sia l’ampio giardino della reggia richiesto dal libretto. C’è confusione su ciò che sia Cina. Per com’è vestita e per i movimenti, la protagonista sembra più una Butterfly che una Turandot. I personaggi sono quasi immobili e non interagiscono tra loro. Ma l’errore forse più incomprensibile è la scelta di relegare il coro in quinta, diviso in due gruppi quasi invisibili e praticamente immobili. Così “castrato”, il coro non adempie al fondamentale ruolo che Puccini gli affida, ovvero quello di protagonista deputato alla resa dell’atmosfera opprimente della mentalità orientale. Soprattutto nel primo atto, dove la folla prende parte diretta all’azione è mancato il contributo del coro.
La concertazione di Carlo Goldstein, alla guida dell’Orchestra dei Pomeriggi Musicali non convince. Le intenzioni dinamiche sono limitate a un forte-mezzoforte costante, senza tracce di reali dosaggi dinamici, con conseguente e apprezzabile (ma eccessiva) teatralità e spettacolarità. I tempi troppo spediti sottraggono il dovuto pathos a una partitura che fonda il proprio fascino sulla resa del clima ieratico e sacerdotale, incompatibile con ritmi eccessivamente incalzanti. Bene la scena degli enigmi con una buona coesione tra cantanti e orchestra.
Venendo al cast vocale – la Turandot di Teresa Romano delude le aspettative. Le maggiori riserve si concentrano nella gestione del registro acuto, in cui il suono si fa querulo e talvolta in affanno, forse in ragione di una vocalità più lirica che drammatica e quindi forse non perfettamente in linea con il ruolo. Buona la resa scenica e gli spunti interpretativi soprattutto nella scena degli enigmi.
Il Calaf di Dario Prola, che ha sostituito Rubens Pellizzari, lascia perplessi. La voce è bella, anche se avara di fraseggio. Ma non è questo il punto. L’interpretazione è assente. Probabilmente anche in ragione della repentina sostituzione e delle scarse prove (?), manca il minimo intento espressivo, il minimo sospiro e il minimo palpito nella resa di uno dei personaggi tra i più passionali dell’intera storia del melodramma.
Ci dispiace dover registrare difficoltà anche per la Liù di Maria Teresa Leva. La vocalità, pur di bel colore, non sembra adeguatamente gestita e il registro centrale risulta spesso indietro.
Dei Ping Pong Pang di Leo An, Saverio Pugliese ed Edoardo Milletti, segnaliamo il contributo di Leo An, che ha sfoggiato una vocalità ampia e ben governata. Edoardo Milletti risulta invece talvolta coperto dall’orchestra.
Completavano il cast Marco Voleri (Altoum) e Alessandro Spina (Timur).
Il coro diretto da Diego Maccagnola fa quel che può nell’ambito delle scelte registiche adottate.
foto Umberto Favretto