Alcina nel gioco dei nobili
di Francesco Lora
Händel procura la rimonta di Minkowski e Musiciens du Louvre dopo la maldestra Armide di Gluck eseguita negli stessi giorni. Senza specialisti del repertorio pre-classico, la compagnia di canto vanta nondimeno pertinenza stilistica e vivacità interpretativa.
VIENNA, 20 ottobre 2016 – Quel che non è riuscito con la maga di Tasso, riesce invece con quella di Ariosto: mentre un’Armide [leggi la recensione] di Gluck nuova e maldestra procede lungo le sue cinque recite, nella stessa Staatsoper viennese è così ripresa un’Alcina di Händel varata sei anni fa, e che oggi pare anzi migliorata come il buon vino (quattro repliche: 20-30 ottobre). L’allestimento porta la firma di Adrian Noble per la regìa, di Anthony Ward per scene e costumi, di Jean Kalman per le luci e di Sue Lefton per la coreografia; non è il prodotto di un gruppo di eruditi nel teatro d’opera settecentesco, dai quali e intorno al quale apprendere un’esegesi positivistica e rivelatoria; ma è uno spettacolo di ispirazione immediata e incantevole atmosfera, ove si finge che gli incantesimi di Alcina e Morgana e le peripezie di Ruggiero e Bradamante siano il gioco di un salotto nobiliare britannico: il pubblico storico di Händel, ritratto con fedeltà iconografica e qualche tocco di magia surreale, diviene in tal modo l’interprete stesso di un suo dramma per musica.
Con gioia si ritrovano i medesimi Marc Minkowski e Musiciens du Louvre che giusto la sera prima erano parsi non appieno adeguati nel titolo gluckiano. V’è da non credere: il direttore, che là giocava tutto nel fraseggio nervoso e nell’asciuttezza timbrica, e l’orchestra, che là faticava ad assommare sufficiente risonanza ed esattezza tecnica, qui sono a ogni aria una sorpresa di moti, colori e caratteri; la sostanza legnosa, tetra e sinistra dell’ensemble strumentale, invero più adatta agli intrighi e alle lacrime dell’Ariodante che agli scherzi e ai sortilegi dell’Alcina, riesce nondimeno a sbocciare in una trascinante e variopinta pienezza di suono. Il merito si estende al Gustav Mahler Chor già ascoltato nell’Armide, e forte di una motivazione stilistica inedita nel teatro sul Ring. Quanto alla compagnia di canto, non allinea alcun gran divo dell’odierno mercato barocco, bensì assortisce, con più senso pratico che risorse omogenee, solidi professionisti; ma là dove la locandina non si sbilancia in promesse si finisce col cogliere soddisfazioni infrequenti nel pieno agone specialistico.
Protagonista è Myrtò Papatanasiu: carriera divisa tra Mozart e Verdi, mezzi vocali di relativa importanza; una voce sopranile altrettanto smaltata e voluminosa non è rara in sé, ma lo è nelle odierne esecuzioni händeliane, dove colpisce anche la malinconica signorilità espressiva qui ascoltata. Ben differenziata risulta al suo fianco la Morgana giovanile, vaporosa e brillante di Chen Reiss, disinvolta anche nella prosodia italiana. Pericolosa, invece, è la solita sottovalutazione della parte di Ruggiero: Rachel Frenkel vi si presta con palese impegno, senza però superare qualche timidezza né lambire il virtuosismo già di Carestini. Meno responsabilità e più mordente guerriero si trovano nella Bradamante di Margarita Gritskova, mentre in Benjamin Bruns come Oronte, lungi dall’evanescenza pseudofilologica, si ha un energico tenore avvezzo anche a Rossini. Funzionale Orhan Yildiz nella parte di Melisso. Eroico il piccolo solista del Tölzer Knabenchor: un folle gli ha affidato la parte di Oberto, irta di arie, ed egli ne viene a capo quasi con divertimento.
foto Wiener Staatsoper / Michael Pöhn