L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Porgy and Bess alla Scala

Black power

 di Emanuele Dominioni

Il Teatro alla Scala si affida a Philipp Harnoncourt per la terza produzione di Porgy and Bess che approda ai fasti del Piermarini. Il regista austriaco ricava una versione semi-scenica dell'opera, che si distingue per il focus su personaggi, sostenuti da una compagnia di canto affiatata e di assoluto livello.

MILANO, 23 novembre 2016 - George Gershwin era notoriamente profondo conoscitore del mondo afroamericano - dalle sue dinamiche sociali e allo spirito che ne animava i rapporti personali - in virtù di una frequentazione e di un'osservazione che dall'infanzia lo accompagnarono fino alla stesura di Porgy and Bess. Nell'accostarsi a questo universo fatto di colori, musica, danza e un particolarissimo slang linguistico e gestuale, Gershwin, conscio delle potenzialità teatrali che esso portava seco, individuò e tradusse musicalmente questa naturale predisposizione.“I neri si esprimono non solo parlando, ma anche danzando e cantando” sono parole dello stesso compositore, il quale tentò in ogni modo di nobilitare e ricercare un'unità stilistica per la sua folk-opera, senza tradirne o snaturarne i contenuti, ma facendosi costantemente ispirare dalle melodie e dalle canzoni tradizionali del mondo afroamericano.

La drammaturgia di Porgy and Bess è giocata complessivamente mediante l'accostamento delle forze del bene e del male incarnate dai numerosi personaggi, i quali, nella loro umoralità e mobilità espressiva, rimangono comunque fedeli alle prerogative iniziali senza subire una vera e propria evoluzione. La stessa Bess inizialmente sembra abbandonare i facili costumi di un esistenza folle e dissoluta, cui poi ritornerà, traviata sia dall'incontro con Crown sull'isola sia dalle sinistre mire di Sporting Life alla fine dell'opera. Il coro è inserito sempre in qualche misura a commento dell'azione, e muta pensiero in relazione al protagonista del momento, unendosi sovente ai solisti nei meravigliosi spirituals e nelle preghiere collettive. Un'impostazione drammaturgica che ben si traduce nell'idea semi-scenica portata avanti dal regista Philipp Harnoncourt alla Scala, con l'ausilio di Max Kaufmann ed Eva Grun. Il coro, dunque, è costantemente lasciato disposto su alcune gradinate, spesso con lo spartito alla mano. Riassumendo scenograficamente lo spettacolo con l'ausilio alcune proiezioni, Harnoncourt pone l'accento sui personaggi lasciando che l'elemento musicale diventi anch'esso protagonista assoluto. Il contesto rimane fedele all'idea del libretto, immerso nella vivace e folkloristica atmosfera di Catfish Row; le bellissime immagini che scorrono sullo sfondo, tratte da alcuni modellini ricreati ad arte, ci parlano dell'America delle periferie e delle desolate lande sub-urbane. Vogliamo sottolineare in questa sede la grande perizia scenica e la totale aderenza allo spirito della partitura di tutti i protagonisti, assolutamente calati nelle rispettive parti sia per energia teatrale sia per caratura interpretativa. Simpatici gli interventi in platea dei venditori ambulanti e nota di merito alle eloquenti le luci firmate Marco Filibeck.

Nel ruolo del protagonista maschile troviamo Morris Robinson, cantante dai tratti imponenti per presenza scenica e qualità di fraseggio. La voce dal timbro scuro con inflessioni cavernose gli ha permesso di disegnare un personaggio assai credibile, accompagnando la forza dello strumento alla fragilità umana scaturita dall'handicap fisico di Porgy.

Kristin Lewis, il cui nome è tornato alla ribalta nelle cronache di questi giorni per il malore subito nella penultima recita, si ripresenta con una performance assolutamente all'altezza delle aspettative. Filati spesi a piene mani e una grande varietà dinamica sono i tratti principali della sua armatura vocale; scenicamente è parsa intraprendente nel tenere testa ai suoi partner maschili, sia durante la scena dello stupro sia nei languidi scambi con Porgy.

Di eguale livello la prova di Tichina Vaughn, come Maria, Strawberry Woman, Annie e Lily. Cantante dotata di indiscusse doti da attrice, ha saputo creare un feeling unico col pubblico, merito questo condiviso con Chauncey Packer nei panni di Sporting Life.

Scenicamente efficace è il Crown di Lester Lynch: sufficientemente odioso e greve fin dal suo ingresso in scena egli trae ispirazione e forza dal suo talento attorale, ma altresì riesce ad affrontare con spavalderia l'impervia scrittura baritonale della parte.

Angel Blue è una Clara elegante e raffinata in Summertime, appassionata e partecipe nei successivi due atti. Lo stesso dicasi per la Serena di Mary Elizabeth William soprattutto nella scena della preghiera e nel finale ultimo, in perfetta sintonia con le dinamiche sceniche. Simpatico e affascinante il baritono Donovan Singletary come Jake, che si presenta al pubblico con una effervescente “A woman is a sometime thing” cantato e ballato con grande verve.

Note positive anche dalla compagnia attorale rappresentata da Stefano Guizzi , Massimo Pagano e Davide Laura al Banjo.

Il coro scaligero in organico pieno, nonostante il ruolo defilato a livello scenico, era ben partecipe all'azione e vogliamo sottolineare l'energica ed entusiasmante partecipazione mediante il ballo e il commento gestuale alla vicenda, cui dimostrava una chiara adesione.

Come già anticipato, l'altro protagonista dell'opera è il variegatissimo affresco timbrico e ritmico creato da Gershwin che si pone quale lussureggiante tappeto sonoro all'azione, tessuto egregiamente dall'Orchestra del Teatro alla Scala. Alan Gilbert dirige con decisa perizia risaltando laddove possibile le oasi timbriche dei vari settori dell'organico, e con grande attenzione alle esigenze di palcoscenico.

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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