Metamorfosi di un sogno fatale
di Roberta Pedrotti
Werther a Bologna: Celso Albelo e José Maria Lo Monaco si alternano a Juan Diego Florez con buoni risultati, anche se non altrettanto eclatanti. Permane l'ottima qualità dell'insieme per una chiusura di stagione in grande stile.
Leggi la recensione della recita con Juan Diego Florez e Isabel Leonard
BOLOGNA, 16 dicembre 2016 - Come ormai molti teatri, il Comunale si impegna dichiaratamente da qualche anno nel proporre per ogni produzione non un primo e un secondo cast, bensì due compagnie differenti per caratteristiche e non per valore e prestigio. Un obbiettivo lodevole, non sempre facile da perseguire benché foriero anche di qualche bella sorpresa che ci ha fatto uscire dalle repliche più sorridenti che dalle première. In questo caso alternare il debutto scenico di Juan Diego Flórez a quello italiano di Celso Albelo nei panni di Werther rappresentava senz’altro una ghiotta proposta: personalità, peculiarità, percorsi diversi lasciavano presagire due letture entrambe da seguire con attenzione. Così è stato e il successo è arriso meritatamente a entrambi, ma ha anche marcato la differenza fra la prova di un ottimo cantante e quella di un fuoriclasse.
Albelo, conterraneo ed epigono di Alfredo Kraus, si rifà all’illustre modello, con un pizzico di giovanile semplicità in più e di aristocrazia in meno. Si trova a suo agio nella tessitura, il suono, senza esondare dall’ambito lirico, è adeguatamente pieno; la tavolozza dinamica e cromatica non sarà delle più ampie, ma lo spettacolo e la concertazione si integrano assai bene con la sua lettura, come avviene in “Pourquoi me réveiller”, in cui la posa in poltrona, parallela a quella di Charlotte, e i colori orchestrali possono suggerire una declamazione quasi straniata dei versi di Ossian. Altrove le frasi rese più incisive dal tenore canario, come “On lève le rideau... puis on passe de l'autre côté, Voilà ce qu'on nomme mourir!” spiaccano in modo particolare e l'attore sa essere efficace e concentrato, soprattutto nel terz'atto. Il finale, poi, se anche non è stato il meglio recitato, è il momento magico di Albelo come interprete, il culmine dell’ispirazione e della resa. Anche José Maria Lo Monaco, Charlotte, convince soprattutto in quest’ultimo atto, che la vede al massimo dell’intesità scenica, vocale e musicale, mentre per il resto il ruolo, risulta un po’ al di sopra delle sue possibilità quanto a peso drammatico, benché la musicista e l’interprete risultino sempre ben a fuoco e l'approccio potrà felicemente essere approfondito in futuro.
Insomma, una bella prova complessiva, non priva di pregi ed emozioni, ma che non intacca il ricordo della totale compenetrazione di Flórez (più affinato che mai anche quanto a emissione e musicalità) e l’intensità della Leonard, stelle di prima grandezza.
Continua a piacere la Sophie di Ruth Iniesta e si fa valere con maggior convincimento anche l’Albert di Jean-François Lapointe, cui non sfugge la situazione né il fatto che gli è, però, impossibile comprenderla fino in fondo.
A una seconda visione un diverso Werther conferisce una prospettiva più concreta e meno onirica pur nel medesimo percorso interiore intorno all'ideale di una casetta stilizzata; si apprezzano, così, ancor più i piccoli tocchi con cui sono ritratti gli evanescenti personaggi di contorno, caratterizzando, per esempio, Schimidt e Johann in maniera ben distinta. Tutto il gioco di simboli e feticci, presenti nel testo e valorizzati fin dall’inizio, è ben chiaro: al centro già del primo incontro fra Werther e Charlotte, il libro, il carillon e il ritratto (che, nella realtà, raffigura la madre della regista, Rosetta Cucchi) assumono ben altro valore drammaturgico riapparendo in prossimità dell’epilogo.
Insomma, un bello spettacolo, pensato nel testo e con i cantanti, non passivamente per i cantanti o narcisticamente per se stessi.
Nondimeno resta bellissima la concertazione di Michele Mariotti. Una delle sue migliori interpretazioni, che eleva la partitura di Werther da sublime ribalta per tenori a intreccio drammaturgico di temi, timbri e ritmi che si dipanano dal coretto diafano d’apertura che s’inacidisce nell’epilogo, dalle taglienti iridescenze della notte del colpo di fulmine alla marcia funebre sottesa alle ultime parole del protagonista, passando per spettrali tintinnii e, soprattutto, un Entr’acte tragico, gelido, straziante. Inutile dire che le voci bianche e l'orchestra lo seguono a meraviglia; una lode meritano anche i figuranti della scuola di teatro Galante Garrone, che collabora stabilmente con il Comunale.
Grandi applausi anche a questa “seconda prima”, anch’essa apertasi, com’è ormai amara consuetudine, con un richiamo alla necessità di un serio interessamento legislativo alle fondazioni lirico-sinfoniche, nonché alla formazione e al futuro di tutti i giovani studenti di musica.
foto Rocco Casaluci