Dimenticare Violetta
di Pietro Gandetto
In chiusura a Genova la nuova produzione della Traviata del Teatro Carlo Felice. La concertazione di Alvise Casellati non risolleva la regia di Giorgio Gallione.
GENOVA, 28 dicembre 2016 - Una Traviata dei ricordi. Ma non da ricordare. La regia di Giorgio Gallione non convince fino in fondo, nonostante la presenza di idee originali, ma forse prive di un solido disegno globale che le inanellasse in un concreto sviluppo drammaturgico. Forse la protagonista muore già nel preludio e tutto è un mero flash back in stile Tim Burton: l’ambiguità resta e non è dato sapere. Leggendo le stesse note di regia, si parla di una Traviata pervasa da un senso di morte costante, che però, in realtà, non coinvolge e non commuove. Per esempio, pur con ogni sforzo immaginativo, non si comprende quale senso abbia l’albero che domina la scena per quasi tutta l’opera, così come non si capisce perché Violetta ci canti sopra. Restano poi un mistero gli ombrelli neri in mano al coro all’inizio dell’opera, così come il fatto che Flora sia una figura androgina né uomo né donna. Insomma, non si capisce dove questa regia voglia andare a parare.
Ci sono ovviamente scene meglio riuscite come quella della festa di Flora, dove le zingarelle diventano mistress strizzate in tutine rosse di paillettes. Idea carina, ma purtroppo inquinata dall’ingresso di matadori che usano come muletas da torero la fodera rossa dello smoking. Le coreografie di Giovanni Di Cicco, massivamente presenti, aggiungono altra confusione: corpi che volano, gente che corre, il tutto completamente avulso dallo spirito che caratterizza l’opera di Verdi. Efficaci invece le luci curate da Luciano Novelli e i costumi di Guido Fiorato.
La compagnia di canto è eterogenea. La giovane Maria Mudryak, che sostituiva l’indisposta Rancatore, è una Violetta pin up in stile Marilyn Monroe. Centra il personaggio, è bella e si muove bene. Ma la voce non è pronta. Pur dotata d’indiscutibili qualità musicali che le consentono di gestire senza sforzo il personaggio, il registro medio grave è pressoché impercettibile e quello acuto è troppo tagliente e privo di quella padronanza necessaria per scolpire un animo così complesso e contraddittorio come quello di Violetta.
Sul versante maschile, il tenore Matteo Lippi nel ruolo di Alfredo dispone di una vocalità ricca e generosa, ma troppo spesso nasaleggiante, soprattutto nell’acuto. Il Germont di Vladimir Stoyanov si caratterizza per una voce ampia e ben gestita anche se priva del dovuto spessore “paterno” nel registro grave.
L’androgina Flora di Marina Ogii non è particolarmente a fuoco nelle poche battute destinate al ruolo. Bene invece il comprimariato, tra cui spiccano la sicura e stentorea vocalità di Paolo Orecchia nel ruolo del Barone, la puntuale Annina di Daniela Mazzucato e il Gastone di Didier Pieri. Completavano il cast Stefano Marchisio nel ruolo del Marchese e Manrico Signorini di quello del Dottor Grenvil.
La concertazione di Alvise Casellati non brilla per originalità. I tempi sono accelerati e dilatati senza una reale coerenza esecutiva e, in generale, l’esecuzione risulta piatta ed emotivamente arida. Buona la prova del Coro preparato da Franco Sebastiani.
Marcello Orselli