La giovinezza che non basta
di Francesco Lora
La bohème è di nuovo al Teatro La Fenice con la regìa di Francesco Micheli. Lascia però delusi una lettura musicale che confida troppo nella giovinezza dei cantanti, là dove Puccini richiede materiale prezioso e solida esperienza.
VENEZIA, 26 febbraio 2017 – Sillogismi pericolosi. Per esempio quello secondo il quale La bohème di Puccini, una storia di ragazzi, debba essere l’opera ideale per un pubblico di giovani – forse vero: ma un adulto ne esce più straziato – nonché per una compagnia di cantanti anch’essi debuttanti o poco più. Da quest’ultima convinzione ha tratto forza, negli ultimi vent’anni in particolare, una tradizione esecutiva piuttosto dimessa: quella disgiunta da interpreti di prima sfera, materiale prezioso e solida esperienza, e affidata invece a chi gioca innanzitutto il capitale (non gli interessi) della freschezza biologica e della naïveté espressiva. Su questa china si pone anche l’ultima ripresa al Teatro La Fenice, con le sue dieci recite dal 16 febbraio al 2 marzo e con due compagnie di canto dignitose senza dubbio, ma non dotate né spronate per lasciare il segno nella lettura di un capolavoro.
Detto a maggior ragione dopo il recentissimo Tannhäuser [leggi la recensione] ove l’orchestra fenicea ha fatto scintille con Omer Meir Wellber, viene a mancare una concertazione autorevole in Stefano Ranzani, da una parte impegnato ad assecondare i cantanti nei loro limiti, dall’altra distolto dalla cura sinfonica che la partitura pretenderebbe. Troppe volte l’enunciazione tematica, il caleidoscopio timbrico e la sollecitudine retorica devono fare qui appello alla memoria dell’ascoltatore per restituire la dovuta ammirazione al dettato pucciniano: si direbbe che il podio collochi tra compositore e uditorio più un diaframma, tanto il discorso musicale si fa sfrangiato e pulviscoloso, che una mediazione utile a illuminare particolari nel testo; così che, scrivendosi di una vecchia volpe della direzione d’opera, simili somme sorprendono il critico stesso.
Il problema è condiviso con i cantanti, qui seguìti nella prima delle due compagnie. Artisti cordiali, impegnati, e tuttavia di estrazione modesta per potersi fare completo tramite di personaggi memorabili nella caratterizzazione musicale. Il Rodolfo di Matteo Lippi, per esempio, consiste tutto nella gioiosa comunicativa di timbro e squillo, ma nel gioco attoriale regge al solo patto di volerlo carattere tutto ingenuo, spensierato e inconsapevole, senza ulteriori e più profonde prospettive. A differenza della potente prova canora e drammatica data come protagonista nella Traviata [leggi le recensioni: 21/02/2015; 29/01/2016; 17/09/2016], per decine di sere e sullo stesso palcoscenico della Fenice, anche Francesca Dotto si limita a una cauta correttezza, come se il canto di conversazione di Mimì e il suo tenero eroismo la impensierissero – o non la motivassero – più di un onerosissimo ruolo di prima donna verdiana.
La più spigliata in campo è, alla pari del rispettivo personaggio, Laura Giordano come Musetta: non a caso, quella che tra i coetanei vanta la più lunga esperienza e la maggior versatilità. Il quartetto degli studenti è completato dall’iperdinamico Marcello di Mattia Olivieri, dal temperante Schaunard di William Corrò e dall’introverso Colline di Luca Dall’Amico: tutti mossi, però, dall’onestà del voler fare anziché dal vanto di uno smalto vocale, o di un porgere sagace, che li renda inconfondibili al primo colpo. Del resto, non si potrebbe attendere ogni soluzione dall’allestimento con regìa di Francesco Micheli, scene di Edoardo Sanchi e costumi di Silvia Aymonino: creato a Venezia nel 2011, fa tuttora bella figura ottenendo il massimo effetto spaziale dall’economia di risorse; cova però una vena onirica inadatta a ridestare una compagnia di giovani alla matura schiettezza di Puccini.