Oggetto e soggetto
di Roberta Pedrotti
Riuscito accostamento fra Poulenc e Mascagni a Bologna con la direzione di Michele Mariotti e la regia di Emma Dante. Anna Caterina Antonacci è una garanzia di eccellenza per La voix humaine, mentre in Cavalleria rusticana la presenza di artisti debuttanti nei rispettivi ruoli e poco avvezzi al verismo tradizionale ha propiziato, se non eclatanti prove vocali, un lavoro musicale di prim'ordine e una lettura intelligentemente ripulita da ogni eccesso esteriore.
BOLOGNA, 9 aprile 2017 - Fino a non troppi anni fa sembrava non si potesse dire Cavalleria rusticana senza proseguire con Pagliacci; oggi, l’abbinata classica si fa sempre più rara e si consolida l’associazione dell’uno o dell’altro pilastro del verismo a balletti, film o atti unici i più svariati, per lo più novecenteschi. Di recente si è visto perfino (a Verona e Torino) lasciar l’opera di Leoncavallo sola soletta, segno che il concetto stesso di “far serata” dev’essersi snellito non poco presso le direzioni artistiche.
Per fortuna, a Bologna la forma del dittico resiste e non ripete le affinità celebrate dalla tradizione, ma continua a cercare strade nuove accostando contrasti e parallelismi.
La voix humaine e Cavalleria rusticana: il legame teatrale, se c’è, è quello sottile che lega il crollo di due donne abbandonate dall’amante. Non si cerca in questo una continuità drammaturgica, le vicende non si fondono come talora capita quando si allestisce un dittico. Semplicemente, il dolore ossessivo di Santuzza e dell’anonima protagonista di Cocteau e Poulenc è un tema comune in sviluppi diversi, nei quali, però, è allora possibile traccciare un coerente percorso estetico, soprattutto sotto il profilo musicale, netto, asciutto, analitico.
Che negli ultimi anni l’Orchestra del Comunale abbia dimostrato di dare il meglio di sé nella produzione di XX e XXI secolo, è opinione che abbiamo già espresso in più occasioni: questo Poulenc lo conferma appieno, dando pieno sviluppo alla lettura quasi spettrale di Michele Mariotti. Il dato oggettivo, distaccato, la concretezza del suono reale (il trillo del telefono, il grammofono) si trova in bilico sul medesimo crinale della soggettività di Elle, delle sue percezioni, dei suoi sentimenti. Il confine, però, è quantomai mobile, ambiguo e rende ancor più perturbante la realizzazione visiva concepita da Emma Dante con cura meticolosa del rapporto fra gesto scenico e gesto musicale: la camera d’albergo si tramuta via via in un ospedale, il filo dell’apparecchio, unico legame rimasto fra Elle e il suo amante, è già reciso, lei si aggrappa delirante a un telefono rotto e muto, circondata da medici e infermiere che paiono non meno veri e concreti delle sue visioni di sé stessa, dell’uomo, di una rivale. Su questo spartiacque nessuno poteva muoversi meglio di Anna Caterina Antonacci, interprete ideale, senza se e senza ma, del monodramma di Poulenc e Cocteau: carisma, fascino sofisticato, screziature malinconiche e sensuali nel timbro messe a frutto in un mélange di freschezza e crepuscolo, malizia e ingenuità, aggressività e arrendevolezza, musicalità finissima, un francese chiarissimo in cui convivono confidenza da madrelingua e studio analitico di chi ha appreso l’idioma straniero. Difficile immaginare un’interiorizzazione tanto elegante e incisiva del delirio di questa Elle.
La medesima prospettiva asciutta ed essenziale è il punto di forza di una Cavalleria rusticana felicemente ripulita d’ogni ridondanza esteriore, rammentando che la radice estetica del verismo letterario è intellettuale e scientifica prima che viscerale e folklorica. Un diverso pathos, che scorra sottopelle teso e tagliente, può emergere con forza anche maggiore, affinché il pittoresco faccia posto all’archetipo. L’opera sembra rivivere d’una freschezza inedita, di una tragicità più profonda e incalzante se non una parola, quand’anche sussurrata, è persa, se la "Mala Pasqua" non si urla, ma si sibila in un canto inacidito come reazione immediata all’offesa, se le arcate in orchestra sono curate per divenire lame o carezze, se la meccanicità degli accenti nella sortita di Alfio non si appiattisce in una marcetta tronfia ma si articola in un ingranaggio propulsivo. Ed è, nondimeno, un piacere, intendere chiare nelle architetture musicali dell’inno pasquale quelle pompose e un po’ ingenue di una cattedrale contadina, o sentire emergere con tanta evidenza, e tanto dolore, nel finale il tema di “Priva dell’onor mio rimango”, un suggello quasi inquietante – il movente della tragedia che si ritorce su Santuzza – a una tragedia ricondotta alla sua radice più intima e universale.
Nel medesimo lavoro di sottrazione virtuosa, che non depaupera ma libera il testo, si riconosce anche il meglio del lavoro di Emma Dante, di cui ricorderemo soprattutto il confronto fra Alfio e Turiddu in un vuoto nero mosso solo dalle luci, dove il marito offeso si aggira minaccioso con un gruppetto di picciotti (in sua assenza corteggiatori della moglie) e le donne spiano seminascoste da colonne di velo nero ai lati. Parimenti, l’aspetto archetipico della vicenda è restituito dai riferimenti al teatro dei pupi e agli elementi mobili di ronconiana memoria che compongono le scalinate della chiesa, l’atrio di una casa padronale, balconi e terrazzi da cui ci si mostra e ci si nasconde, si spia, si dialoga, ci si corteggia o ci si scontra. Si ritrovano i topoi caratteristici della regista palermitana, ma è innegabile che in questo titolo trovino generalmente collocazione felice, o perlomeno coerente. Bello è decisamente il colpo d’occhio, nel nero generale, dei ventagli variopinti agitati dal coro femminile come farfalle, efficace la trasformazione del carro processionale in cupola di cattedrale (ma la scomunicata Santuzza dovrebbe starsene un po’ più in disparte). Il ricorrere della sacra rappresentazione della Via Crucis ha senz’altro una sua precisa logica drammaturgica, e non mancano di suggestione le allusioni ad ataviche prefiche e al Compianto sul Cristo morto di Nicolò dell’Arca, anche se l’associazione nel suo complesso risulta un po’ troppo prevedibile. Nondimeno sensati, nell’estetica complessiva, i cavalli impennacchiati da carretto siciliano impersonati da dinoccolate tersicoree perennemente al seguito di compar Alfio (richiamo al teatro popolare? Ironia? Donne oggetto? I significati possono essere uno, nessuno o centomila), tuttavia sembrano soprattutto una firma, un marchio della regista più che soluzioni pienamente convincenti. Non risulta, comunque, mai turbato uno spettacolo fluido, chiaro, ben strutturato.
Proprio la solidità del lavoro di squadra, l’accuratezza in tutte le sue parti è il sostegno migliore per il cast, sempre stimolato a una più rifinita resa interpretativa. Lo si nota in particolare nel Turiddu di Marco Berti, di cui è ben nota la vocalità squillante, generosa, baciata dalla natura, ma che raramente avevamo ascoltato così attento alla quadratura musicale e al solfeggio. Il tenore siciliano era anche l’unico del cast ad avere già dimestichezza con il ruolo e il repertorio, l’unica vocalità veramente versata al secondo Ottocento; Carmen Topciu, invece, possiede sì la tessitura da mezzosoprano acuto di Santuzza, ma il peso vocale sembra più decisamente lirico: le dimensioni del teatro e una lettura scevra da ogni tonitruanza la possono aiutare, ma la tensione avvertibile a tratti sembra sconsigliare di proseguire nella frequentazione ed esplorazione di questo repertorio, che potrebbe pregiudicarne i buoni mezzi. Una vocalità più leggera del consueto può, è vero, garantire una maggior duttilità musicale, ma a patto che possieda l’autorevolezza per sostenere la scrittura senza affanni, cosa che non sempre è riuscita al mezzosoprano rumeno.
Anche Gezim Myshketa non è un cantante aduso al Verismo e al tardo Romanticismo: frequenta soprattutto Mozart, il primo Ottocento, l’opera francese; si sta affacciando sempre più decisamente a Verdi. Sicuramente il peso oggi non è quello del baritono drammatico, ma l’idole sanguigna e robusta dell’interprete lo pone particolarmente a suo agio nella scrittura mascagnana, che Mariotti gli restituisce non troppo gravosa. Per questo, e per una dizione più chiara e naturale, risulta più convincente della collega, benché anche nel suo caso, fuor di questa produzione, è bene che i ruoli più spinti restino in attesa per qualche altro anno.
Anastasia Boldryeva, Lola, è tanto appropriata sulla scena, straniata statuaria e sprezzante, quanto, purtroppo, ingolata e sfocata nel canto. Decisamente meglio Claudia Marchi come Mamma Lucia.
Il coro preparato da Andrea Faidutti, chiaro in tutti i suoi interventi, ben si presta al gioco scenico mescolandosi alla perfezione con i ragazzi della Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone e gli attori della compagnia di Emma Dante.
Il grande successo finale conferma come il repertorio italiano a cavallo fra Ottocento e Novecento possa essere riscoperto spazzando via l’aria viziata di certa tradizione e suggerendo, viceversa, aperture verso la modernità.