Regia incoronazione
di Antonino Trotta
Con il dramma per musica L’incoronazione di Dario si chiude il Festival Vivaldi, rassegna curata dalle maggiori istituzioni culturali torinesi. Il titolo vivaldiano, eseguito per la prima volta nel capoluogo piemontese, riscuote ottimo consenso di pubblico. Nella compagnia di canto s’impongono Sara Mingardo e Riccardo Novaro. Non sempre riuscito è il taglio comico che la regia sceglie per il libretto tardoseicentesco di Adriano Morselli.
Torino, 23 Aprile 2017 – Va in scena per la prima volta al Teatro Regio L’incoronazione di Dario, dramma per musica in tre atti di Antonio Vivaldi su libretto di Adriano Morselli. Ultimo appuntamento all’interno del festival dedicato al compositore veneziano che ha deliziato il pubblico torinese dal 5 al 23 aprile (si concluderà il 15 luglio la mostra L’approdo inaspettato: un’occasione per conoscere il lascito vivaldiano tuttora in possesso della Biblioteca Nazionale)
Dopo la prima, avvenuta nel 1717 a Venezia tra l’insuccesso dell’opera del collega Fortunato Chelleri e la creazione della più fortunata Arsilda regina di Ponto dello stesso Vivaldi, L’incoronazione di Dario è stata eseguita una sola volta in Italia per la 35° Settimana musicale senese, nel 1978. Lo sporadico interesse dei discografici l’ha riportata in luce nel 1987 (con l’incisione Harmonia Mundi, diretta da Gilbert Bezzina) e nel 2014 (edita da Naïve all’interno della collana Vivaldi Edition, direttore musicale: Ottavio Dantone). Per la presente produzione il teatro torinese sceglie di coinvolgere il direttore musicale e gran parte della compagnia di canto presenti in quest’ultima incisione.
Nella presente produzione la regia firmata da Leo Muscato offre una lettura dell’opera in chiave contemporanea. La contestualizzazione medio-orientale della vicenda risulta naturale e assolutamente coerente con la trama. Il regno a cui mirano i vassalli dell’estinto Ciro è un ricco bacino petrolifero: gareggiano per la successione al trono Dario, virtuoso sceicco arabo, Arpago, capo delle milizie, e Oronte, capo operaio del sito di estrazione.
Essenziali e accattivanti sono le scenografie curate dall’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, che profonde altrettanta cura anche nei costumi. L’elemento comune è l’intreccio di condutture petrolifere che si sviluppa in tutte le dimensioni e amplifica la percezione dimensionale del palcoscenico. All’architettura scenografica si integrano talvolta delle proiezioni, non sempre appropriate (l’aurora boreale può apparire in un paese mediorientale?). Gli spazi domestici sono arricchiti da mobili e decorazioni dorate di chiara ispirazione orientale che impreziosiscono l’ambientazione reale e contestualizzano in maniera impeccabile i vari momenti dell’opera. Degno di menzione è il contributo di Alessandro Verazzi (luci): giochi chiaroscurali di grande effetto convogliano l’attenzione del pubblico sui protagonisti e sui particolari rilevanti di ogni scena.
Non tutte le scelte della regia, però, sono condivisibili: il taglio comico riesce quasi a trasformare un lavoro di genere serio in un’opera buffa. Il libretto offre spunti di lieve ilarità nello sviluppo drammaturgico, benché nessuno dei ruoli sia propriamente buffo. Anzi, rispetto alla prima versione del libretto (Venezia 1684; musica di Domenico Freschi), quello rivisto per Vivaldi è molto più indirizzato verso il genere serio. Viste queste premesse non si può vedere di buon occhio la trasfigurazione di Statira in una donna ebete e inconsapevole: ciò stona con l’intero contesto musicale e snatura il carattere del personaggio. Più calibrata è la lettura degli altri personaggi, che preservano inalterati vizi e virtù originari senza scivolare nel ridicolo per destare l’ilarità immotivata nel pubblico. I movimenti dei cantanti sul palcoscenico sono fluidi e disinvolti eccetto nei momenti “comici”, in cui diventano talvolta robotici, come per la povera Statira durante l’aria «L'occhio, il labbro, il seno, il core», costretta a camminare in maniera convulsa, da destra e sinistra, con passo cadenzato a ritmo di musica, per tutto il palco.
Non contribuiscono alla leggibilità della vicenda i copiosi tagli approntati dalla direzione. Si omette la ripresa di parecchie arie, sia a partire dalla sezione B, sia ricorrendo a tagli interni nella riproposizione della sezione A. I numeri musicali talvolta si riducono alla durata inferiore al minuto (e riscuotono notevole consenso: non sarebbe valsa la pena di proporli per intero?). Non lede la comprensibilità del discorso teatrale la suddivisione in due anziché in tre atti, grazie anche alla completezza di ogni cellula scenica.
È molto valida la prova dell’orchestra del Teatro Regio, nonostante l’utilizzo di strumenti moderni sia poco adatto al repertorio affrontato. L’orchestra appare assolutamente in grado di confrontarsi con il barocco, intavolando una gamma di colori e dinamiche molto ampia e mirata. Merito è della guida attentissima di Ottavio Dantone, che dirige e concerta al cembalo durante il recitativo con eguale disinvoltura.
Protagonista assoluta dell’opera è Sara Mingardo (Statira), veterana nel repertorio barocco. Sono poco frequenti le sue incursioni nel genere comico, e in questo caso l’esperimento è riuscito. È un piacere vederla dipingere sia scenicamente sia vocalmente un personaggio protagonista tanto ambiguo. La sua forza è la parola scolpita nei recitativi e la grande varietà di accenti nel canto. Valida è la prestazione di Delphine Galou (Argene), benché più limitata sul piano vocale (l’artista prende parte alla recita nonostante l’indisposizione annunciata). Soprattutto nella recitazione, il contralto francese riesce a conferire al personaggio una caratura di grande interesse, definendo una figura antagonista a tratti sensuale e coinvolgente. Meno a suo agio è invece Carlo Allemano (Dario), che accusa qualche difficoltà nelle agilità dell’aria di entrata «Sarà dono del tuo amore», per poi recuperare col proseguire della recita. Il suo Dario non è l’amante giovane e impetuoso ma conserva la regalità nella presenza scenica e l’autorezza nel porgere. Non convince sempre la performance di Roberta Mameli nei panni di Alinda: qualche acuto non bene a fuoco rischia di minare dei momenti apprezzabili, specie nelle arie patetiche. Convincente fin da subito Romina Tomasoni, che nelle vesti di Flora coglie l’occasione per schierare una voce corposa dal colore scuro e dotata di buon volume. Ottima la prestazione di Riccardo Novaro (Niceno), unica voce grave maschile, che esibisce, oltre a un colore interessante, notevole disinvoltura nelle arie di temperamento. Più in sordina le prove di Lucia Cirillo (Oronte) e Veronica Cangemi (Arpago). Proporzionato all’onere della parte è il contributo di Cullen Gandy nel doppio ruolo dell’Ombra di Ciro e dell’Oracolo di Apollo.
foto Ramella&Giannese