La follia di Enrico e Lucia
di Stefano Ceccarelli
Torna alla veneziana Fenice uno dei capolavori di Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor, soggetto di Walter Scott (The Bride of Lammermoor) e libretto del dotato Cammarano. La regia di Francesco Micheli, un nuovo allestimento, sacrifica il fascino nordico del paesaggio scozzese per accentuare la franta intimità di un dramma familiare, scenicamente reso in una congerie di mobili accatastati o pendenti dal soffitto. La direzione di Riccardo Frizza è di polso, energica, muscolare nelle concessioni a un canto fortemente drammatico. I tre canonici ruoli di un tipico melodramma romantico sono alquanto ben rappresentati dalle voci del cast: Markus Werba (Enrico), Nadine Sierra (Lucia) e Francesco Demuro (Edgardo) portano a casa una serata assai apprezzata dal folto pubblico in sala.
VENEZIA, 27 aprile 2017 – Una Lucia scenicamente ardita e musicalmente muscolare quella che propone La Fenice in quest’insolitamente freddo fine d’aprile veneziano. La regia del maggior capolavoro (almeno, per inveterata tradizione, il più noto e amato) di Donizetti viene affidata a Francesco Micheli, noto per essere di mano sperimentale: e non delude con questa Lucia, assai desolata scenograficamente e psicologizzante fino all’inverosimile nell’idea che sfocia anche in simbolismi spesso disorientanti. Micheli s’immerge alla perfezione nel mare della nouvelle vague dei registi, indulgendo in esagerazioni propriamente mitteleuropee. Teatralmente, Micheli dà enorme spazio al personaggio di Enrico, vittimizzato fino all’estremo in una morsa di eventi che non riesce fatalmente a evitare: in tal senso, risulta interessante il lavoro proprio su questo carattere. Non ho ben compreso, addirittura, se tutta l’opera sia una sorta di ricordo di Enrico, ultimo avanzo d’una stirpe infelice, un viaggiare allucinato nelle rovine del suo pensiero tormentato per la morte di Lucia, di cui è – consapevole o no – il primo autore. In effetti, è anche l’unico dei tre a rimanere mestamente in vita: forse, anzi, impazzando anch’egli. La regia indulge sul dramma d’interno familiare: il fantasma della madre di Enrico e Lucia (prima autrice dell’avversione – come in Walter Scott – per un’alleanza con i Ravenswood) che ritorna per incitare i figli, quasi, a compiere il loro distruttivo dovere; l’insistere scenico sulle rovine di una casa distrutta prima nell’intimo dei cuori, che nel mobilio, abbandonato alla decadenza. Insomma, s’annullano quasi le simmetrie fra interno ed esterno, si fondono in un amalgama psicologizzante e indistinto fra reale e irreale. Le scene di Nicolas Bovey rispondono a quest’intento: il sipario si apre su una congerie di mobili ammassati con cui vieppiù interagiscono coristi, personaggi e figuranti, creando, in effetti, molto movimento. Ma chi cercasse quelle atmosfere romanticamente abbandonate sulle rive dei laghi di Scozia, sulle sue brughiere coperte dalla bruma, rimarrebbe deluso: la scena abbonda di bivacchi fra rovine, simbolismi marcati di oggetti (il ritratto dei morti genitori, uno specchio onnipresente – la realtà dei fatti, che non è il delirio della mente?), e solo un paesaggio dipinto su un ciclorama di sfondo, unica concessione alla pittura ambientale della storia, che contorna tanto la festa nuziale quanto il cimitero degli avi di Edgardo, ci suggerisce un barlume di Scozia. La recitazione dei cantanti è messa a dura prova in quest’intricata scena e, devo dire, rispondono praticamente tutti con grande maestria, soprattutto la triade Enrico-Lucia-Edgardo. A livello registico, un momento certamente indimenticabile è la scena della follia di Lucia: giocando con i bicchieri della festa (correlativo oggettivo dello spettrale timbro della glassarmonica), ora stesa ora in piedi sul lungo tavolo in scena, la Sierra progressivamente si insozza di vino fino a risultare aspersa del sangue di Arturo (ov’era, invece, entrata in scena in un candido biancore, quasi che il delitto fosse stato, ancora, un parto di una mente folle). Anche l’ultima scena nel cimitero dei Ravenswood risulta interessante, dove il coro degli abitanti della città di Lammermoor impersona gli stessi avelli: i coristi sono stesi, infatti, come morti e ben dialogano con un imminente suicida. Dunque, qualche interesse la regia di Micheli pur possiede, ma procede farraginosa in questa sovrastruttura psichica, in questo baratro psicologico, i cui risvolti altamente astratti sono difficili da seguire appieno e appesantiscono, talvolta, la storia, costringendo quasi lo spettatore a concentrarsi esclusivamente sulla musica.
L’orchestra de La Fenice viene ben diretta da Riccardo Frizza: l’agogica è sostenuta, risoluta, senza che manchino momenti di espansione della pittura musicale squisitamente romantica, come nel preludio alla cavatina di Lucia, ove il concertatore lascia libertà di variare all’eterea cadenza dell’arpa. Frizza concede, d’accordo con gli interpreti, un canto addirittura muscolare, sorretto da un buon volume orchestrale. Ne vien fuori una Lucia che palesa, più dell’usato, le sue potenzialità espressive e drammatiche. Lo si vede bene nella performance del coro e nei momenti degli ensemble: sopra tutti, il finale II (con il celeberrimo concertato «Chi mi frena in tal momento») è di grande effetto.
Lord Enrico Ashton è Markus Werba, che sostiene perfettamente il ruolo, forte di una voce centrata, scura, squillante (a tal punto che esegue le purtroppo oramai classiche puntature in partitura, fortunatamente bene!): lo testimoniano l’ira della sua aria «Cruda… funesta smania», l’autorità paternalistica che tira fuori nel suo duetto con Lucia (II parte) e i selvaggi accenti in quello con Edgardo (la scena nella torre di Wolf’s Crag, fortunatamente sempre più reintrodotta nelle recenti produzioni), «Qui del padre ancor s’aggira». Lucia Ashton è interpretata da Nadine Sierra, bellissima, dal perfetto physique du rôle. La sua voce polposa, rotonda, le consente di essere ben centrata nell’emissione, ma il fraseggio di diversi recitativi, come anche in altri passaggi, attestano ancora una lieve immaturità nel dosaggio dei colori e delle sfumature, essenziali in un ruolo puramente lirico come quello di Lucia: esegue comunque bene la cavatina, «Regnava nel silenzio» (avrebbe maggiormente potuto, certo, giocare di fino, ma ha ampi margini di tempo per migliorare). Delicatezze vocali coniugate a un fiato saldo si mostrano, finalmente, nello splendido duetto con Edgardo (I quadro), «Sulla tomba che rinserra», dove i due propongono una cabaletta che termina in un nerboruto sovracuto all’unisono di grande potenza; nello speculare duetto con Enrico si lascia apprezzare per un’interpretazione trascinante. In effetti, la Sierra migliora nel corso della serata, giungendo alla scena della follia («Il dolce suono») con la voce ben scaldata, tale da proporre un’interpretazione convincente e trascinante – soprattutto sul piano della recitazione: forse, esagera con alcune durezze nella zona acuta durante la cadenza con la glassarmonica, ma il giovane soprano statunitense (che sta avendo ora un periodo di meritata notorietà internazionale), curando maggiormente certi dettagli, potrà realmente far bene in questo ruolo. Francesco Demuro canta Edgardo Ravenswood: una voce acuta, non particolarmente potente, in certo senso ‘antica’ (e confacente, filologicamente, a quella che doveva essere – almeno quando su di lui creò il ruolo Donizetti – la voce di Duprez, primo Edgardo), lo rendono convincente interprete di un ruolo, tutto sommato lirico, con accessi romantici. Infatti, fa bene nel duetto con Lucia (I) e in quello con Enrico, forse cadendo in qualche ingenuità per eccesso di zelo canoro. La sua scena finale, la commovente «Tombe degli avi miei», esce bene, con accenti disperati acuiti da un uso accorto ed espressivo di talune durezze nei passaggi. Francesco Marsiglia canta un diafano Lord Arturo Bucklaw. La sua fulminea, breve cavatina («Per poco fra le tenebre»), dovrebbe eroicamente brillare: si tratta, drammaturgicamente parlando, della contrazione del suo modello di riferimento, l’entrée di Rodrigo di Dhu nella Donna del lago rossiniana, l’antieroe che pretende con baldanza la mano della sua (legittima) promessa sposa: quanto il Rossini della Donna del lago e di Guillaume Tell, squisitamente, puramente walterscottiano, abbia funto da modello per il Donizetti di Lucia è sotto gli occhi di tutti. Marsiglia, invece, non riesce né a slanciare la voce, né a risultare prontamente eroico. Il Raimondo di Simon Lim, benché florido vocalmente, non si eleva sopra una buona esecuzione delle note. Sottotono l’Alisa di Angela Nicoli e sforzato, a tratti, il Normanno di Marcello Nardis.
Il pubblico veneziano applaude con amore la sua Lucia, tributando ai cantanti più di un applauso singolo e un’ottima accoglienza sul palco. A mio avviso, pur al netto di qualche intuizione, la regia rimane indigesta; la direzione di Frizza è ammirevole, sebbene la muscolare drammaticità di moltissimi passaggi, forse, non sia in linea con l’ethos intimo della partitura: ma, tutto sommato, una serata piacevole in un bellissimo, storico teatro.
foto Michele Crosera