Don Carlo in debito
di Francesco Lora
Precoce ritorno del capolavoro verdiano al Maggio Musicale Fiorentino, con Mehta concentrato più sul dettaglio che sull’insieme, un allestimento scenico recuperato dal circuito spagnolo e una compagnia di canto ove si impongono Beloselskij, Casolla e Di Giacomo.
FIRENZE, 11 maggio 2017 – Il Maggio Musicale Fiorentino del 2013 era insieme l’ottantesima edizione del più antico festival italiano e quella dei duecento anni di Giuseppe Verdi. Il programma fu ricchissimo, con ben cinque opere e concerti memorabili. Ma i tempi erano già di austerità. Il più atteso tra gli spettacoli in cartellone finì così per metà sacrificato: le recite del Don Carlo verdiano ebbero una pallida esecuzione in forma di concerto, diretta da Zubin Mehta, utile soprattutto a dimostrare come quel capolavoro non si presti a una realizzazione parziale; e il nuovo allestimento con regìa di Luca Ronconi, scene di Tiziano Santi e costumi di Jacques Reynaud fu annullato, precludendo al noto regista il destro di un testamento artistico da affiancare alla controversa Armida del Rossini Opera Festival [leggi la recensione]. Mehta ha tenuto a mente quel debito col Don Carlo, e ha scelto questo titolo come sua opera di congedo dopo trentadue anni da direttore principale al MMF.
Per le quattro recite all’Opera di Firenze, dal 5 al 14 maggio, è tuttavia stata accantonata l’idea di un nuovo allestimento e si è recuperato uno spettacolo concepito, nel 2010, per Bilbao e una cordata di altri teatri spagnoli. La regìa di Giancarlo Del Monaco e Sarah Schinasi, le scene di Carlo Centolavigna, i costumi di Jesús Ruiz e le luci di Wolfgang von Zoubek concorrono a una lettura tradizionale quando non direttamente oleografica. Dietro strutture neutre tappezzate con un’antica carta geografica si vedono i fondali dipinti ormai caduti in disuso; gli abiti mutuano il Cinquecento iberico più da figurini ottocenteschi che da una mirata ricerca storica; il lavoro con gli attori è lasciato all’estro dei singoli cantanti, senza che si colga l’idea teatrale unificatrice. Rare e vane le licenze: la Principessa Eboli che va a porre di persona sul tavolo di Filippo II il cofanetto involato, Don Carlo che nel finale va a gettarsi e uccidersi sulla spada sguainata dal padre-rivale.
Il campo rimane in tal modo libero al discorso musicale, ancora una volta lasciato poco più che solitario. Scelta la versione in quattro atti di Milano 1884, però, Mehta rivolge ormai tutta l’attenzione a dettagli prediletti e isolati del forbito accompagnamento strumentale: allentando il passo onde mettere a punto accenti di fraseggio o amalgami timbrici, e per tale via sembra perdere di vista la continuità del flusso melodico, il respiro insieme col canto e il ritmo stesso del corso drammatico. Impressiona tuttora quando sfoga il Coro del MMF nel quadro dell’autodafé o la relativa Orchestra nelle battute conclusive dell’opera: quella terrificante deflagrazione degli ottoni alla comparsa di Carlo V è un virtuosismo tecnico noto soltanto a lui. Stanchezza espressiva, sfiducia analitica e sommarietà retorica si riascoltano nondimeno come nel critico contesto del 2013, e fanno rimpiangere l’esaltante lettura che egli stesso diede, nel 2004, sempre a Firenze.
Quattro anni or sono il miglior interprete vocale era stato il basso Dmitry Beloselskij come Filippo II. Riconfermato alla sua parte, lo è tuttora per omogenea pastosità timbrica, agio d’estensione e – soprattutto – per il personaggio granitico costituito tra studio della parola e dovizia di sfumature. Spiace unicamente l’emissione ingolata, poiché in essa si perdono armonici di pregio; né va dimenticato che le sue radici stanno, anziché in una lacuna tecnica, in un preciso carattere della scuola russa. Dal 2013 al 2017 è stata riconvocata, come Eboli, anche la connazionale Ekaterina Gubanova; alle seconde recite è però corsa a sostituirla Giovanna Casolla, fresca di trionfo a Genova [leggi la recensione] nella stessa parte (debuttata nel 1976) e di nuovo trionfatrice alla ribalta fiorentina. Coloratura laboriosa e registro grave affiochito; ma registro acuto sciabolante, temperamento travolgente e volume che spettina: vanti pervenuti non così bene alle nuove generazioni.
Nel famigerato MMF 2013 una Messa da Requiem finì disertata da direttore e metà solisti; Mehta prese le redini della situazione e diede una lettura memorabile; presentò inoltre un soprano capace sia di un pianissimo smaltato sia di sovrastare l’iradiddio col Do sopracuto. Quella Julianna Di Giacomo si ritrova qui come Elisabetta di Valois, cui dà introversa gentilezza e un canto di ampia maestà, fatto più di colori che di tratti, con qualche inedito stridore nel salire sopra il rigo. Nella parte eponima le è accanto Roberto Aronica, adeguato nella vocalità ma avaro nell’espressione, senza che la comunicativa timbrica compensi l’inerzia. Poderoso e virile, ma anche fibroso e monotono, il Rodrigo di Massimo Cavalletti; rabbioso fino a negligere il galateo del canto il Grande Inquisitore di Eric Halfvarson; autorevolezza e buone maniere si conciliano invece nel Frate di Oleg Tsybulko, mentre sul crinale tra lusso e scialo sta la Voce dal Cielo di Laura Giordano.
© Michele Borzoni - Terraproject - Contrasto