Mistero senza fine bello
di Alberto Ponti
Il testamento teatrale di Mozart trionfa al Regio sotto la bacchetta di Fisch
TORINO, 18 maggio 2017 - Con Die Zauberflöte Mozart lancia un ardito ponte tra passato e avvenire. Lirico e fantastico, drammatico e scherzoso, summa dell’esperienza classica e al tempo stesso già prepotentemente volto verso il primo romanticismo, l’ultimo capolavoro teatrale del genio di Salisburgo colpisce a ogni messa in scena per la molteplicità di letture che se ne possono trarre, corollario di una creazione musicale di attualità imperitura e conturbante. Compito ingrato è il dirigere un’opera che coniuga la grazia leggera del sogno con il taglio ironico del conte philosophique e il robusto realismo del singspiel popolare. L'israeliano Asher Fisch, alla guida dell’orchestra del Teatro Regio, regala al pubblico torinese una lettura personale e convincente, caratterizzata da tempi sostenuti, cura del timbro e rispetto per i cantanti, autentica sorpresa di uno spettacolo che riprende l’allestimento scenico della precedente rappresentazione subalpina del 2014 [leggi la recensione].
Fin dalle prime battute dell’ouverture a colpire è il respiro di tutte le voci, la chiarezza in filigrana del fugato, la rotondità luminosa di trombe e tromboni. Nel corso dell’azione si potranno poi apprezzare nella giusta luce raffinatezze come l’impasto dei legni con i corni di bassetto nella marcia dei sacerdoti in apertura di secondo atto, il rilievo di flauti e fagotti concertanti nell’aria di Sarastro, il magico tintinnio del glockenspiel, i terribili accenti degli accordi sospesi nel grande recitativo di Tamino davanti alla porte del tempio di Iside, in cui l’immortale archetipo di Gluck è per la prima volta nella storia superato in favore di un discorso tragico e concitato di potenza già quasi wagneriana.
Ad entusiasmare e deliziare una platea assai numerosa è anche la compagnia di protagonisti, capitanata dal Papageno del baritono austriaco Markus Werba, autentico mattatore che, nel suo ruolo prediletto, a un timbro ben a fuoco e squillante aggiunge doti da attore navigato con trovate e battute spesso improvvisate nello spirito del libretto di Schikaneder, irresistibili nell’ingresso in scena direttamente dalla sala con la cavatina ‘Der Vogelfänger bin ich ja’ e nell’aria ‘Ein Mädchen oder Weibchen’, che tanto impressionò il giovane Beethoven. Audace nelle movenze ma più prevedibile nella condotta del canto è la Pamina di Ekaterina Bakanova, giovane soprano russo, voce cristallina di notevole agilità e tecnica perfetta che, nonostante alcuni momenti di toccante lirismo, nei passi cruciali rimane talvolta confinata in un patetismo abbastanza convenzionale.
Ben calibrato, il Tamino del tenore Antonio Poli emerge per sicurezza di emissione, presenza scenica e vivacità nei dialoghi con Papageno, al pari del Sarastro di Antonio di Matteo, basso chiamato a sostituire l’indisposto Kristinn Sigmundsson, con una prestazione di alto livello, appannata solamente da una pronuncia tedesca migliorabile, culminata negli applausi scroscianti dopo la celebre ‘In diesen heil’gen Hallen’.
Discorso a parte merita Astrifiammante, Regina della Notte, a cui Mozart destina, nei quindici minuti scarsi di presenza sul palco, due arie tra le più fascinose e impervie dell'intero repertorio sopranile. Olga Pudova svolge e rotea l'ampio mantello con piglio da primadonna, ascendendo con facilità ed eleganza alle vertiginose colorature del ruolo, con linea melodica bellissima e smagliante nelle note più acute ma meno vigorosa un'ottava più in basso, mancando di un soffio la perfezione.
Godibile e spigliata appare anche la Papagena impersonata da Elisabeth Breuer, mentre Cameron Becker (Monostatos), Sabina von Walther, Stefanie Irányi, Eva Vogel (rispettivamente prima, seconda e terza dama), Roberto Abbondanza (oratore e primo sacerdote), Cristiano olivieri (secondo sacerdote e primo armigero) e Luciano Leoni (secondo armigero e una voce) completano un cast di ottimo rango.
Accanto alle tre voci bianche dei fanciulli (Valentina Escobar, Lucrezia Piovano, e Giorgio Fidelio) conquista un plauso speciale il duttile coro del Regio, istruito da Claudio Fenoglio, più volte chiamato in causa da una partitura che riserva ampio rilievo alle scene collettive.
Essenziale e pulita, vincente in chiarezza su una trama intricata e densa di simbologie, spesso scarna e didascalica nell’apparato scenografico ma carica a tratti di autentica suggestione, è la regia di Roberto Andò, ideata per lo spettacolo del 2001 al Massimo di Palermo e già utilizzata nell'edizione torinese del 2014, nella ripresa di Riccardino Massa, con le scene e luci di Giovanni Carluccio.
Fantasiosi e indovinati nel complesso, con note stridenti solo nell'abito di Tamino, di una tetraggine mai vista, e nelle lunghe chiome preraffaelite delle tre dame (forse più adatte a una Valchiria)sono pure i costumi di Nanà Cecchi, altrimenti capaci di evocare con gioiosa leggerezza la dimensione mitica in cui è immersa tutta l’opera.
Il titolo più rappresentato sui palcoscenici di tutto il mondo ancora una volta non delude, tra le ovazioni scroscianti di una sala che decreta allo spettacolo un indiscutibile successo su tutti i fronti, magnetizzata dalla forza visionaria e misteriosa di una musica destinata a rimanere un unicum anche all'interno dello sterminato catalogo mozartiano.
foto Ramella & Giannese