Le Cinque Giornate di Nabucco
di Andrea R. G. Pedrotti
Ambiziosa quanto incoerente e irrisolta la nuova produzione dell'opera verdiana a cura di Arnaud Bernard per l'inaugurazione della stagione estiva areniana. Nonostante la presenza di un direttore esperto degli spazi veronesi e assiduo interprete di Nabucco come Daniel Oren, delude anche l'aspetto musicale.
VERONA, 23 giugno 2017 - Dopo appena due anni Nabucco torna a inaugurare il Festival lirico dell’Arena di Verona e dopo tre ritroviamo sul palco dell’anfiteatro scaligero una nuova produzione.
Il regista, Arnaud Bernard, decide di ambientare le vicende narrate da Verdi e Solera nel contesto delle Cinque Giornate di Milano; la scelta è, invero, discutibile, poiché il momento storico non ha nulla a che fare con la drammaturgia di quest’opera. L’idea complessiva parte da un luogo comune, tanto diffuso quanto errato, secondo il quale nei melodrammi di Giuseppe Verdi fossero contenuti espliciti riferimenti alle vicende politiche risorgimentali. Questo valeva per La battaglia di Legnano, commissionata dalla Repubblica Romana di Armellini Mazzini e Saffi, alla cui prima era presente anche Garibaldi: per tutte le altre, no.
La contestualizzazione in un preciso momento storico va motivata ancor più di un’idea dal sapore atemporale, come fu quella dell’Aida del 2013.
Si sono volute rappresentare le Cinque Giornate di Milano e, allora, tanto valeva studiare un po’ meglio un qualsiasi libro storia delle scuole dell’obbligo. La scena si svolge a Milano, nei pressi e all’interno del teatro alla Scala. La città meneghina ha un governo italiano (con tanto di gran bandiera repubblicana del dopoguerra novecentesco) e brulica di soldati italiani. Qui Bernard, perciò, ci fa intendere che, nel marzo del 1848, l’odierna bandiera fosse già in uso e che Milano fosse controllata da un fantomatico (perché non ancora esistente) esercito italiano. Nei bozzetti i costumi sono indicati esplicitamente come di “soldati italiani”: pur volendo tentare elasticità potremmo pensare che si riferisse all’esercito piemontese, ma i sabaudi non parteciparono alla sommossa milanese.
Milano (secondo Bernard già italiana prima che l’Italia esistesse) viene occupata dagli austriaci nella conquista di una città che, nel 1848, era già sotto l’egida dell’aquila bicipite. Ricordiamoci che, in questo guazzabuglio generale, stiamo presenziando a una recita di Nabucco, dove la trama vorrebbe che le milizie babilonesi conquistino Gerusalemme e deportino gli ebrei nella mezzaluna fertile e l’intera opera di sviluppi sul desiderio di un popolo di tornare alla propria patria lontana. I milanesi sono a Milano e non capisce dove abbiano intenzione di tornare.
A ogni modo, secondo la fantasiosa ricostruzione di Bernard, gli austriaci avrebbero invaso la città e occupato la Scala, con la sede del governo nel foyer dello stesso teatro. Nabucco è truccato da Francesco Giuseppe, Ismaele è un soldato italiano e Zaccaria è un simpatico popolano tracagnotto aduso a strattonare i suoi connazionali. Da un sacerdote ci si aspetterebbe un comportamento differente, ma, secondo Arnaud Bernard, egli non è un sacerdote, è un borghese che canta frasi che nulla hanno a che vedere con l’azione scenica. Ricordiamo che l’opera, in teoria, sarebbe Nabucco. Comico, se non tragicomico, il momento in cui il Gran Sacerdote pronunzia la frase “Vieni, o levita!… Il santo codice reca!”, alla quale segue l’ingresso di un carbonaro (nome in codice “Levita”?) con un dispaccio che sostituisce la tavola della legge.
Francesco Giuseppe (alias Nabucco) perde il senno per un colpo di pistola al capo; il governo passa nelle mani di Abigaille che nelle stanze del potere (il foyer della Scala) si esibisce in una serie interminabile di posture di maniera tali da far rimpiangere il gusto “avanguardistico” di Gianfranco De Bosio. Spade sguainate, ampi gesti delle mani, pose plastiche: un ricettario vintage a tratti sconcertante.
La regia scade decisamente nel kitsch nel terzo e quarto atto. Viene ricostruita la sala della Scala (con un palco inspiegabilmente sbilenco), all’interno della quale un cartonato di una Menorah ci fa intendere che al Piermarini stia per andare in scena un Nabucco. Gli austriaci in platea e gli italiani nei palchi e nelle gallerie. Da notare come Bernard (anche costumista) non abbia minimamente pensato a dare un senso alla disposizione degli stessi, con popolani nel secondo ordine di palchi mescolati all’alta borghesia milanese. Tipico del 1848, almeno secondo il regista francese.
Va in scena Nabucco, con una quantità inusitata di comparse sul finto palco scaligero (l’orchestra non c’è, ma non si può pretendere troppo). Durante l’esecuzione di “Va’ pensiero” il pubblico (quello della Scala fasulla) è cheto finché non viene pronunciata la frase “patria sì bella, perduta”: in questo momento austriaci e italiani cominciano a insultarsi reciprocamente con plateale gestualità. Per chi l’avesse visto erano movenze molto simili a quelle che si scambiavano la plebe e i nobili in Il fornaretto di Venezia del quartetto Cetra. In più, nella celebre parodia RAI, essi si scambiavano anche dei plateali “cicca, cicca, boum!” Qui, ovviamente, non è accaduto perché siamo nel contesto di una produzione di musica, cosiddetta, “colta” e il livello culturale di Antonello Falqui e Gino Landi non è sicuramente paragonabile a quello di una produzione come questa.
Al termine del celebre coro viene mostrato alla sala (quella finta e al pubblico dell’Arena) uno striscione recante la scritta “W V.E.R.D.I.” (viva Vittorio Emanuele re d’Italia). Era un acronimo risorgimentale, è vero, ma senza senso nel contesto delle Cinque Giornate di Milano (il rifermiento è esplicitato dal regista nelle note) e, nel 1848, sul Piemonte, regnava Carlo Alberto.
Il finale non migliora: l’idolo infranto è un altro cartonato sul palco della finta Scala che si spezza, colpito da una scintilla, a mo’ di macchina teatrale seicentesca, scatenando le risa dei presenti. Francesco Giuseppe diviene Nabucco (dopo la pazzia) sul palco scaligero e si riscopre patriota carbonaro italiano, brandendo un tricolore e perdendo i baffoni. Fenena canta l’aria conclusiva in costume tradizionale come Abigaille, ma quest’ultima può vantare una controfigura sul palco (col costume da alto-borghese ottocentesca) che si dispera guardando il finto Nabucco, alla finta Scala. Al termine gran confusione di volantini tricolori e bandiere enormi sul palco, nell’indifferenza di un’Arena gelida, che sovente ha fatto mancare del tutto l’applauso durante l’opera. Impressionante il silenzio collettivo al termine del secondo atto. Nemmeno la presenza continua di cavalli, carrozze, reggimenti, barricate, etc.. ha saputo scaldare gli animi. Unico timido applauso a scena aperta l’apparizione della ricostruzione dell’interno della Scala.
Si poteva pensar meglio della resa musicale, ma, per la prima volta, siamo costretti a non lodare una concertazione di Daniel Oren all’Arena. Tecnicamente ineccepibile, manca di passionalità, mordente e teatralità. I volumi sono fin troppo contenuti e l’intera opera appare solfeggiata: vanno a tempo, nulla di più. Una mancanza grave da parte del direttore israeliano (a Napoli per Manon Lescout fino a tre giorni prima) è il non aver impedito una serie di interminabili rumori di scena, scoppi fragorosi, esplosioni continue, talmente forti da soffocare per tutto il primo atto orchestra e cantanti. Anche le prime note dell’ouverture sono coperte: Oren è bravo ad attaccare in pianissimo, ma la corsa sul palcoscenico di alcuni ragazzini (i Martinitt) copre l’esecuzione. Bastava avvertire di farli entrare in scena una frazione di secondo prima.
Peggiore assoluto del cast è l’imbarazzante Zaccaria di Stanislav Trofimov: la voce non è mai proiettata, perennemente soffocata da un’emissione in dietro, difetta anche dal punto di vista recitativo. Purtroppo la sua è stata una prestazione insufficiente sotto ogni punto di vista.
Su livelli simili l’Abigaille di Tatiana Melnychenko, che, a differenza, del collega, appare dotata d’un buon mezzo vocale, ma i registri sono disomogenei: i centri non sono mai proiettati e gli acuti non sono mai opportunamente a fuoco. Nella cabaletta dell’aria “Anch'io dischiuso un giorno”, “Salgo già del trono aurato”, le maende nella gestione dei fiati sono palesi, le parole vengono ignorate, tranne quando il soprano è costretto ad abbandonare l’impostazione vocale e scadere nel parlato, urlando letteralmente alla sala “l’umil schiava a supplicar”.
Alterno il Nabucco di George Gagnidze, chiude il secondo atto con stonature e stecche plateali, prima di affrontare un III e IV atto correttamente insipidi.
Anonimo l’Ismaele di Walter Fraccaro: si impegna molto sia vocalmente sia scenicamente, ma non va oltre a una buona professionalità e a una discreta gestione di un mezzo non eccezionale.
Migliore del cast è la Fenena di Carmen Topciu, brava in scena e accurata nel fraseggio. La voce non ha la freschezza e la morbidezza del debutto in Arena dello scorso anno (forse anche a causa del clima), quasi fosse chiusa da un po’ di catarro. A conclusione dell’opera è l’unica a non demeritare.
Completavano il cast Romano dal Zovo (Gran Sacerdote di Belo), Paolo Antognetti (Abdallo) e Madina Karbeli (Anna).
Buona la prova del coro (specialmente quello maschile) della Fondazione Arena, diretto da Vito Lombardi, unico fra i complessi capace di regalare qualche emozione positiva.
Regia e costumi erano di Arnaud Bernard, le scene di Alessandro Camera e le luci di Paolo Mazzon.
Pubblico particolarmente freddo, forse anche per la totale assenza di una linea drammaturgica nell’idea registica, visivamente sconnessa da un libretto (per di più proiettato nei sovratitoli) che racconta una storia totalmente diversa nei significati.
foto ENNEVI