Su! Del Nilo al sacro lido
di Andrea R. G. Pedrotti
Il ritorno del felice allestimento della Fura dels Baus per l'opera verdiana esalta il fascino mitico dell'Arena, in perfetta simbiosi con la sua opera-simbolo. Convince anche la resa musicale, protagonisti Yusif Eyvazov (Radames) e Sae-Kyung Rim (Aida).
VERONA, 9 luglio 2017 - Era il 2013, l’anno del centenario dell’Arena di Verona, quando nel contesto dell’anfiteatro cittadino prendeva vita per la prima volta l’Aida con la regia di Carlus Padrissa e Àlex Ollé / La Fura dels Baus. Questa messa in scena pone in luce l’unicità delle potenzialità mitopoietiche di uno spazio che non nacque per rappresentazioni teatrali e per il quale, peraltro, nemmeno Giuseppe Verdi pensò mai per alcuno dei suoi melodrammi.
Cento anni dopo la ritualità della genesi d’un sogno immaginifico non poteva che riproporsi attraverso quella riscoperta dell’antico Egitto che, proprio nell’Ottocento, andava sviluppandosi, in seguito alla decifrazione della scrittura geroglifica.
Squadre di archeologi sono intenti in scavi che portano alla luce reperti che fanno scorgere un mondo lontano, prossimo, ma intangibile quanto un sogno. Un sogno che forse i primi esploratori provarono: immaginiamo l’emozione di Giovanni Battista Belzoni nel ritrovare le spoglie mortali di Sethi I, o l’ingresso alla piramide di Chefren, o il celeberrimo il busto colossale attribuito a Memnone (in realtà di Ramesse II).
Quest’emozione viene restituita al pubblico dell’Arena, che, osservando il cartiglio sul grande reperto al centro della scena, scorge la medesima simbologia riportata nei vessilli infuocati branditi dalle truppe egizie.
Un autentico dialogo fra antico e moderno capace di fondere due epoche definite nell’irrealtà d’una suggestione che solo l’Arena di Verona sa restituire.
La scena va a comporsi man mano, spoglia fintanto che gli operai egiziani e le squadre d’egittologi si aggirano sui marmi nudi dell’anfiteatro. Si formano le dune rocciose delle valli del Nilo, dalle tinte simili a quelle delle pietre areniane.
L’emozione autentica ha inizio dalla scena “Alta cagion vi aduna”, con un crescendo di coinvolgimento, fatto d’effetti visivi, finché non ci si può non sentire partecipi all’invio delle truppe che con la maestosità del coro del grande pezzo d’assieme “Su! del Nilo al sacro lido”, avvinti dalle faci delle insegne fiammeggianti.
Tuttavia la potenza mitopoietica dell’Arena ha la sua apoteosi nel finale del primo atto. Sul fondo pare crearsi una struttura, nel mezzo della quale un grande globo votivo prende forma e i sacerdoti del mistico rituale pagano fanno il loro ingresso nell’anfiteatro da ogni accesso, coinvolgendo l’intero spazio nella catarsi del mito. In questo momento la luna di moltiplica e il rituale di purificazione coinvolge gli elementi: plumbee nubi che, fino a quel momento, avevano coperto il cielo veneto si discostano per lasciar posto allo sguardo al perigeo lunare che dalla volta celeste mostra chiari i suoi crateri, spalancati quasi in segno di stupore per la cerimonia che andava a compiersi.
Più tradizionale il secondo atto, ma solo nei movimenti. Amneris ha il suo trono sul freddo e disadorno marmo di foggia quasi etrusca e le danze si sviluppano dietro un tenda turchese che raccontando un altro mito caro all’antichità, un intrattenimento scherzoso per i moretti della reggia con la sconfitta del minotauro nella sua leggenda cretese: Creta, la rotta che consentiva alle popolazioni mediterranee di raggiungere proprio l’Egitto senza esser costrette a costeggiare il continente.
Nella scena del trionfo il dialogo fra antico e moderno è palese, così come l’irrealtà del materializzarsi d’un sogno immaginifico, con animali stilizzati e il formarsi della colossale superficie riflettente: idolo votivo al disco solare, salutato dal nostro benevolo satellite, ancor luminoso al centro del cielo.
Nel terzo atto è l’acqua del Nilo protagonista, con giunchi e coccodrilli a ondeggiare eleganti, carezzati dalla brezza del fiume sacro. Tornano le nubi nel cielo, quasi ad accompagnare il turbamento di Aida, prima che la tragedia abbia a compiersi.
Il compiersi del mito, il termine del sogno è nel finale. Il grande idolo votivo comincia a scendere inesorabile sulle vicende di amore e morte della terra dei Faraoni: opprime l’animo di Amneris e consegna alle sabbie del deserto l’amore di Aida e Radamès, sepolti dalla terra patria in una damnatio memoriae che ci sarebbe stata restituita solo dopo secoli, sempre sotto lo sguardo del disco lunare. “Il trionfo dei sacerdoti”; quello che storicamente tentò di soffocare nell’oblio il culto di Amenophi IV, che venne sopito, ma non annientato, consegnando al mito la religione del dio Aton e conferendole fama, la stessa fama di un’Arena che, con questa produzione, seppe riscoprire se stessa.
Sul piano musicale il cast è guidato dall’eccellente Radamès di Yusif Eyvazov. Il tenore azero, che già lo scorso anno s’era distinto come uno dei migliori interpreti del ruolo passati negli ultimi tempi da Verona, appare tecnicamente migliorato: l’emissione è ancor più uniforme, la voce è proiettata con precisione e, i registri sono pienamente omogenei. Ulteriori progressi si sono notati nella purezza del suono e nella capacità di eseguire smorzature senza mai mutare la posizione della voce. Il suo è un Radamès elegante, che si fa forte di un fraseggio accurato e di una naturalezza nello squillo fuori dal comune.
Precisa musicalmente l’Aida di Sae-Kyung Rim, partecipe nell’espressione e dotata di suono pieno nel registro centrale e acuto, ma che difetta in un registro grave meno uniforme e convincente.
Discreto l’Amonasro di Boris Statsenko, nonostante notevoli difficoltà di dizione e alcune mende nella gestione dei fiati, specialmente nel terzo atto. Dalla sua notiamo una buona uniformità d’emissione in una tessitura che affronta senza particolari difficoltà.
Bene anche l’Amneris di Anastasia Boldyreva, nell’unica recita a lei affidata. Il mezzosoprano dimostra di aver preparato il ruolo con cura e impegno, anche se sarebbe preferibile maggior morbidezza nell’emissione.
Completavano il cast Deyan Vatchkov (il Re), Giorgio Giuseppini (Ramfis), Antonello Ceron (Un messaggero) e Marina Ogii (Sacerdotessa).
Dal podio il maestro Julian Kovatchev concede una concertazione di routine, non precisissima nella gestione degli ottoni e degli assiemi (specialmente nel finale del II atto). La linea musicale necessiterebbe di un fraseggio maggiormente curato e un’intensità drammatica meno anodina.
Di rilievo la prova del coro dell’Arena (specialmente nella componente maschile) diretto da Vito Lombardi. Meno entusiasmante quella del corpo di ballo, coordinato da Gaetano Petrosino, poco preciso nell’esecuzione delle coreografie di Valentina Carrasco. Un esempio è il finale del I atto, quando, coi globi, dovrebbe esser composta la scritta “Ftha”, che, nella serata del 9 luglio, risultava pressocché illeggibile. Questa poteva essere una problematica prevedibile, dopo la chiusura della compagine stabile, che aveva sempre garantito maggior coesione e precisione.
Le scene erano di Roland Olbeter, i costumi di Chu Uroz.
foto Ennevi