Le fonti di Corinto
di Roberta Pedrotti
Le siège de Corinthe nell'attesa edizione critica di Damien Colas apre nuove, seducenti prospettive sull'opera rossiniana e sulla riflessione critica e filologica. Il capolavoro riscoperto che credevamo di conoscere pressoché a menadito è proposto in una messa in scena interlocutoria e problematica della Fura del Baus e affidata alla bacchetta ispiratissima di Roberto Abbado con un cast equilibrato e l'ottimo debutto pesarese dell'Orchestra Rai. Si apre così con successo il Rossini Opera Festival 2017 dedicato alla memoria di Alberto Zedda parallelamente al ciclo di conferenze della Fondazione Rossini, che rendono omaggio a Philip Gossett.
Leggi l'intervista al curatore dell'edizione ccritica, Damien Colas
PESARO, 10 agosto 2017 - Quando, diciassette anni fa, si presentava a Pesaro una revisione “preparatoria dell'edizione critica” di Le siège de Corinthe l'impresa di venire a capo delle fonti (nessun autografo e differenze anche sostanziali fra le edizioni a stampa approntate a breve distanza, prima o dopo, dal debutto assoluto) pareva titanica, tant'è vero che lo stesso, compianto Philip Gossett l'avrebbe definita "impossibile". Nel frattempo si studiava il materiale a disposizione, sottoposto a cure rigorose, e, anche proponendo soluzioni diverse (il confronto con il Rof del 2000 venne poi dalle recite e dall'incisione discografica realizzate a Wildbad - leggi la recensione), si giunge a conclusioni che parevano assodate riguardo la prima opera francese di Rossini. Per esempio si notava come da un lato alcune forme del Maometto II (il Terzettone del primo atto) andavano nella rivisitazione parigina a ridursi e semplificarsi, mentre la stretta del duetto fra la primadonna e il condottiero turco mutava radicalmente accogliendo il coro e fondendosi con una reminiscenza della scena successiva dell'opera napoletana. Oggi, nell'edizione critica di Damien Colas, che ripristina la stesura originaria del Siège prima dei tagli che incorsero fin dal debutto assoluto, ci rendiamo conto che la sezione finale del duetto era molto più estesa e ricalcava piuttosto fedelmente la rielaborazione che Rossini già aveva curato per Venezia, ampliando – e non sintetizzando – la cabaletta per assorbire il taglio di “All'invito generoso”. Ascoltare la scena fra Pamyra e Mahomet nel secondo atto in forma così estesa non è l'unica gradita sorpresa di questa riscoperta del Siège, giacché tutto il secodo atto assume una fisionomia nuova, che segna ancor più lo spiccare il volo del Rossini “francese”, creatore del grand-opèra, rispetto a un primo atto che in gran parte traduceva e riadattava semplicemente Maometto II. Il graziosissimo coro “L'Hymen lui donne”, mutuato da Ermione, viene stabilmente collocato nell'arco dei divertissement nuziali, mentre il sipario si apre su Pamyra sola che intona la sua aria: non, però, nella versione bipartita che tutti conosciamo, ché il cantabile “Du sèjour de la lumière” (da “Madre a te che sull'empireo”) è preceduto da un primo tempo più virtuosistico e maestoso “O patrie infortunée!” tratto sempre dal finale di Maometto II, “Sì, ferite: il chieggo, il merto” (alleggerito delle colorature più scabrose come tutti i numeri tratti dalla partitura italiana). Da qui la tensione drammaturgica cresce con l'ingresso progressivo degli altri personaggi – Mahomet, Ismène e il coro con i danzatori, Néocles e cori ulterori di greci e turchi – fino al magnifico finale secondo e alla minaccia definitiva del sovrano “Que le soleil, témoin de ma victorie, demain cherche Corinthe et ne la trouve pas!” (“Che il Sole, testimone della mia vittoria, cerchi domani Corinto e non la trovi!”).
Di scena in scena la traduzione si fa opera nuova, il riadattarsi a diverse convenzioni si fa piena padronanza di un linguaggio nuovo e questo, domo, si fa creta nelle mani di Rossini. Il verso francese, così indocile al metro originale italiano, fiorisce nella musica nuova e costituisce una nuova pietra del paragone, soprattutto in quel terzo atto che replica, variato, lo schema del secondo: una grande aria, questa volta per tenore e questa volta articolata in libera progressione drammatica, quindi un trio (“Cèleste providence”, per la prima volta eseguita nella sua versione più estesa) e un blocco finale maestoso, scandito in due grandi quadri, con la benedizione delle insegne e la caduta finale. Nel primo caso si trattava di inserire un preciso riferimento d'attualità (in un'opera nominalmente situata nel XV secolo) alla cerimonia che nel 1821 aveva dato il via all'insurrezione greca contro i turchi e alla sortita disperata e al suicidio collettivo degli ultimi superstiti dell'assedio di Missolongi (1825-26): la scena, che raccoglie suggestioni e cronache dalla fortissima emozione suscitata dai fatti greci all'epoca della composizione del Siège, divenne emblematica al punto da influenzare l'iconografia relativa all'insurrezione ellenica, determinare una ripresa dell'opera durante l'assedio tedesco a Parigi (1870) e ispirare a Berlioz l'episodio del sacrificio di Cassandre e delle donne troiane, assente nell'Eneide, nei suoi Troyens. L'epilogo, infine, assume un peso inedito con l'ampliamento dei pertichini del coro e di Ismène nella preghiera “Juste Ciel, ah! Ta clémence” e, soprattutto, di tutti gli interventi, compreso il coro al gran completo, che fanno dell'irrompere di Mahomet e del suicidio di Pamyra non l'estrema, intima, resa dei conti fra due amanti divisi da politica e religione, ma un'akmé tragica di più ampio respiro, in cui echeggiano la stessa sofferenza e la stessa grandezza profetate da Hièros nella benedizione delle insegne. Improvvisamente ci si rende conto che la tempesta orchestrale che accompagnava l'ultimo incontro fra Mahomet e Pamyra era nuda, che abbiamo ritrovato in quest'edizione critica qualcosa che ci mancava, anche se magari non ce ne rendevamo perfettamente conto.
Allora chi ancora ama giocare al conto alla rovescia sui titoli da riscoprire per dar senso a un festival monografico si vedrà inesorabilmente sconfitto dall'evidenza di una ricerca filologica che ha ancora molto, moltissimo da dire, perché non si limita al restauro di alcuni dati oggettivi, ma interpreta e riflette senza sosta, si mette in discussione e si riscopre. Abbiamo atteso decenni per ascoltare questo Siège, ne è valsa la pena, ma anche questo non è un punto d'arrivo, è un nuovo inizio.
Un festival, peraltro, deve osare e ricercare non solo nella scelta dei testi, ma anche nella loro realizzazione concreta. Da questo punto di vista la messa in scena affidata a Carlus Padrissa della Fura dels Baus non ha mancato l'obiettivo dando luogo a uno spettacolo che – con tutti i topoi caratteristici della compagnia catalana, compreso un certo compiacimento estetico – resta problematico, quasi perturbante, per certi versi. Abbiamo, infatti, fatto qualche accenno ai riferimenti storici e ideali del testo, ma pagine e pagine si potrebbero spendere sulla complessità dei contenuti del Siège de Corinthe e sulla rete di fonti, suggestioni, materiali che hanno concorso a delinearne la drammaturgia. Là dove i rapporti umani sono condizionati da sovrastrutture religiose (cristiani contro musulmani), socio-politiche (ribelli contro oppressori, sentimenti individuali e doveri verso la comunità) o familiari (obbedienza al padre e desideri personali), qui tutto si riconduce alla radice più elementare di ogni conflitto, alla struttura originaria da cui tutto ha origine: la sopravvivenza e la disponibilità dell'elemento da cui, più d'ogni altro, dipende la vita come noi la conosciamo, l'acqua. In quest'estate siccitosa e dalle temperature (checché ne dica mr. Trump) inquietanti, a pochi giorni da un terrificante incendio sui colli alle porte di Pesaro, questo terreno spaccato dall'aridità, questi ambienti delimitati da pareti di bottiglioni d'acqua ha senz'altro una sua presa immediata. D'altro canto, un'immagine così semplice ed essenziale ci provoca una sorta di vertigine per tutto quel che viene eluso, per tutte le sovrastrutture etiche che muovono i personaggi mentre il teatro non ci mostra che la loro radice estrema. Parlate pure di Dio e libertà, di doveri e passioni, ma, in fondo, tutti cerchiamo solo di sopravvivere, e sopravvive chi ha l'acqua, non chi prega uno o l'altro dio, chi è libero o chi è schiavo, chi è vincitore o chi è vinto, chi è fedele o chi è traditore. Manca, di conseguenza, anche il mito dell'Ellade, quello cantato da Hiéros nella sua profezia, quello che spinge Lord Byron e tanti giovani europei a combattere contro gli insorti ottocenteschi, quello che qualche anno fa si invocava anche per soccorrere la Grecia nei momenti più cupi della crisi economica. Sì, è una mancanza che si fa sentire, ma anche in questo caso l'assenza ispira una riflessione problematica, non può trovarci passivi, turba, come turba il contrasto fra le coreografie (a onor del vero, non le più belle viste al Rof, ma nemmeno le peggiori) che narrano lo scontro violento per l'oro liquido sulle note di un gaio divertissement: ironia, straniamento, arbitrio? Comunque lo si veda, qualcosa che non lascia indifferenti e incrina una visione univoca e lineare del rapporto fra musica e dramma. Peccato che invece di approfondire ulteriormente questa strada di scardinamento di certezze fra strutture e sovrastrutture, principi etici ed estetici, Padrissa con Lita Cabellut (costumi, video, elementi scenografici e pittorici) indulga in dettagli esornativi, quand'anche di bell'effetto, tipici del collettivo catalano ma in sostanza poco influenti nell'architettura concettuale dello spettacolo, quando non decisamente criptici come nel caso dei ritratti esposti varie volte fra primo e secondo atto. Decisamente più felice l'idea di proiettare durante la sinfonia e i ballabili (tre, con il reintegro del galop finale) alcuni versi di lord Byron dedicati all'impresa ellenica e a una spietata guerra fratricida, perfetto trait-d'union fra il contesto in cui nacque Le siège de Corinthe (che, non a caso, con un'opera dell'avventuriero e letterato inglese condivide, se non il soggetto, il titolo) e la messa in scena di questa ripresa pesarese.
Ripresa in cui si impone la bacchetta di Roberto Abbado, con merito ancor maggiore se si pensa che il maestro è giunto alla prima con il braccio destro infortunato. Alla guida dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, al suo felicissimo debutto pesarese, Abbado coglie appieno la natura dell'opera, l'eloquenza della tragédie lyrique, la plasticità formale del belcanto fra Napoli e Parigi, la tensione epica e psicologica del dramma, la sottigliezza preziosa dell'orchestrazione, il respiro dinamico nelle sue arcate maggiori e nelle sue strutture più intime. Basti citare, se non la sinfonia e l'incedere insinuante, fra l'ebraico e il levantino, della marcia funebre greca, almeno l'architettura mozzafiato dei tre grandi finali, l'articolazione fremente e poetica dell'aria di Néocles, il continuo, ma non lezioso, trasecolorare agogico nella marcia patriottica del terzo atto, che s'impenna solenne e incalzante allargandosi poi a rivelare un carattere d'inno rivoluzionario vero e proprio.
Roberto Abbado regge ottimamente le fila e sostiene un cast ben coeso ed equilibrato. Luca Pisaroni ha l'accento giusto per questo Mahomet, è altero, appassionato, anche un po' sprezzante là dove il suo ruolo di condottiero o l'impeto virile dell'amante lo richiedano, senza, tuttavia, perder ma di vista musicalità e buon gusto. Parimenti Nino Machaidze conferma un'accresciuta confidenza con il dramma rossiniano e si afferma come Pamyra autorevole, capace di bei legati e mezzevoci come di espressioni perentorie e slanci energici. La coloratura è quella di una cantante moderna ben consapevole dell'importanza sostanziale e non esornativa del virtuosismo: non avremo la precisione assoluta di mille fuochi d'artificio sgranati, ma sicuramente la forza teatrale di una primadonna ben attenta al dettato rossiniano, e dispiace davvero che un fan troppo impaziente abbia sciupato la cabaletta del secondo atto interrompendola e disturbandola con acclamazioni e applausi anche durante il canto.
Meritano un secondo ascolto (e lo avremo in concerto insieme con Michael Spyres) i due tenori: John Irvin è un Clèomene più nervoso che autorevole, corretto nell'emissione ed efficace soprattutto nei centri; Sergey Romanovsky, visibilmente emozionato, propone un Néocles meno eroico e romantico di altri, più introverso, quasi insicuro, amante di una donna che lo rifiuta per il suo peggior nemico e guerriero posto di fronte a una disfatta certa e inevitabile. Il materiale pare notevole, con suoni bruniti e ben timbrati e acuti centrati e squillanti ben calibrati allo stile francese, anche se talora, nei passi concitati, pare manchi ancora un po' di mordente e omogeneità.
Carlo Cigni incarna a dovere il rigore profetico di Hièros; Xabier Anduaga (Adraste) e Iurii Samoilov (Omar) si fanno notare per la vocalità brillante e sonora, al cui confronto Cecilia Molinari (Ismène) pare cantare in sordina: l'effetto della preghiera finale, non potendo competere per volume e proiezione con Nino Machaidze, risulta così parecchio ridimensionato.
Altro nuovo acquisto per il Rof è il coro del Teatro Ventidio Basso, preparato da Giovanni Farina, che si fa trovare ben pronto all'arduo cimento.
Alla fine applausi per tutti punteggiati giusto da qualche borbottio di rito per gli artefici della messa in scena (con Padrissa e Cabellut citiamo almeno il curatore luci Fabio Rossi e la coreografa Mireia Romero), ma se anche gli spettacoli perfetti da incorniciare potranno esser altri, quando si esce dal teatro pensando e ripensando alla bellezza dell'opera e ai suoi significati significa che il Festival ha colpito nel segno.
foto Amati Bacciardi