Riccardo Muti: Aida e(`) il testo
di Francesco Lora
Il capolavoro di Verdi è tornato al Festival di Salisburgo dopo quasi quarant’anni, con uno spettacolo ovunque impegnato ad assecondare lo spirito del compositore. La pulita regìa della Neshat si compenetra con la concertazione oggettivata di Muti, e la compagnia di canto è stellare: Netrebko, Meli, Semenchuk, Salsi, Beloselskiy.
SALISBURGO, 12 agosto 2017 – Il concertatore lo aveva promesso e così è puntualmente stato: dopo quasi quarant’anni d’assenza dal Festival di Salisburgo, l’Aida vi è tornata per sette recite nel Grosses Festspielhaus (6-25 agosto); e a renderla differente da ogni altra lettura tramandata è stata l’adesione caparbia, come non ancora prima, al dettato di Verdi. A costo far quasi scomparire il primo tra gli interpreti nell’oggettività della partitura così fitta di segni: in questa Aida diretta da Riccardo Muti e con una locandina stellare, non si ascolta un solo gesto musicale nato nella calligrafia, nel compiacimento di sé, nell’uso divampante di fare di testa propria pur di sfidare e sfinire la primaria consistenza dell’opera nel testo; tutto si svolge nell’equilibrio, nella semplicità, nella chiarezza, preferendo l’incedere pensoso, spaziato, notturno, sospiroso, pessimista, e con una fibrillazione continua nel fraseggio che evoca, narra, suscita non tanto l’esotico quanto il tragico. È un’Aida che si protende come un unico blocco, a sfumare la sequenza dei “numeri” musicali, con una marcia trionfale che, beninteso spogliata di ogni evidenza areniana, pare un dito puntato a indicare il più alto grado gerarchico del concertato, forse mai ascoltato così scultoreo e assertivo, quindi ancora la rifinitezza viepiù intima, stoica, velata degli atti III e IV. Occorre sforzarsi di continuo per ricordarsi che a suonare sono i Wiener Philharmoniker: non mancano loro i consueti bagliori dorati, l’impeto da macchina colossale, la tensione di amplissime campate; ma a sopravanzare tutto sono un’affabilità timbrica e una morbida cantabilità tipicamente italiane, loro recate in dote da Muti.
Digressione. A servire da prova del nove è il concerto eseguito, nella stessa sede e negli stessi giorni (13-15 agosto), dai medesimi direttore e orchestra, con l’aiuto di Yefim Bronfman, maestro di signorilità alla tastiera del pianoforte. Nel Concerto n. 2 di Brahms e nella Sinfonia n. 4 di Čajkovskij il dialogo tra Muti e i Wiener è questa volta attuato secondo il codice mitteleuropeo appreso e affinato dal maestro in decenni di collaborazione con l’orchestra, sino a vette di inaudito virtuosismo su entrambi i fonti e sino a porre in vistoso primo piano l’interprete-imperatore sulla coppia di compositori compiacenti: chi ambisca alla corona mangi ancora molta minestra.
L’Aida officiata da Muti ha corrispondenza totale nel nuovo allestimento con regìa di Shirin Neshat, scene di Christian Schmidt, costumi di Tatyana van Walsum, luci di Reinhard Traub, coreografia di Thomas Wilhelm e proiezioni di Martin Gschlacht / Coop99. Temerarietà: la Neshat, proveniente dall’arte visiva, è debuttante assoluta nel teatro d’opera. Dato di fatto: la sua lettura si svolge tutta nel rispetto della musica, nell’ascolto dei musicisti, nella precisa volontà di rendere fruibile la drammaturgia e di restituirne gli obiettivi etici. Per una volta, il teatro non ringhia contro l’opera, ma la scopre amandola, e non dimentica il proprio ruolo sociale. L’azione sul palcoscenico scorre pulita nei gesti e nelle immagini, prosciugata del superfluo circense ma anche soltanto di controscene, nel rispetto del libretto ma indulgendo a un assoluto senza tempo: nel nero vuoto un cubo bianco si dimezza e ricompone, muta gli spazi della recitazione ruotando su sé stesso, richiama l’attenzione non sulla propria struttura ma sugli attori. Sottile il dialogo con il pubblico, per esempio nella galleria di costumi. Lieve, pastello, immutato quello di Aida, a significarne la spiritualità. Colori primari pieni, invece, per quelli di Amneris: giallo nell’atto I, rosso nel II, blu nel III indi bianco all’uscita dalla purificazione nel tempio; ma all’inizio dell’atto IV la principessa fastosa e dai molti cambi indossa ancora l’abito dell’atto precedente: l’immediato giudizio di Radamès ha fermato la notte in una disperata attesa, prima che nell’ultimo quadro si veda l’abito nero che annulla ogni colore. Nessuna intenzione di utilizzare Aida come manifesto d’attualità, ma se ne esplorano luoghi impensati: mentre il trionfo ferve tra danze, la scena ruota e va a mostrare, in luogo del palco dei potenti, la massa spaurita dei prigionieri etiopi in attesa di sfilare come prede di guerra. Non commuove: obbliga a pensare ed è con Verdi. Non serve volere di più.
Occorrerebbe invece un coro più dinamico, risonante e smaltato di quello, diligente ma piuttosto spento, dell’Opera di Stato di Vienna. La compagnia di canto, al contrario, è da lasciare atterrita ogni altra locandina, anche perché alle doti di ciascuno si unisce qui lo studio capillare con Muti. Persino prepotente è il debutto del soprano Anna Netrebko nella parte protagonistica: impressiona il profluvio di armonici che va a far vibrare di suono ogni angolo della sala; impressiona il Do sopracuto raggiunto con disarmante facilità di modulazione, e con una luminosità così ammaliante da non far più capire se il pianissimo vi sia stato; impressiona l’accento drammatico che non è ancora geniale ma vanta vigore d’altri tempi; impressiona la misura stilistica di una cantante che sembra poter fare tutto ciò che vuole. Non è da meno il debutto del tenore Francesco Meli, come Radamès giustamente restituito al calibro lirico: il tenore è così sollecitato a far valere l’arte della sfumatura – la smorzatura sul Si bemolle della romanza, beninteso, risponde all’appello – e a far valere la comunicativa del timbro; metta a posto l’ansiosa tendenza a forzare l’emissione, e dunque a divenire fibroso e stentato, là dove la competizione con l’orchestra gli fa cercare volume: poi sarà senz’altro pronto all’agognato Otello.
Superbo per nobile rotondità di timbro, autorevolezza del porgere e singolare agio lungo tutta la gamma è anche il baritono Luca Salsi come Amonasro. L’anello debole – si fa per dire – è invece il mezzosoprano Ekaterina Semenchuk come Amneris: contesa a livello internazionale per la fluvialità dei mezzi, anche a costo di soprassedere sulla sottigliezza interpretativa, ha qui la sventura di trovarsi fianco a fianco con una primadonna ancor più florida di potenza vocale e in virtù non solo di natura ma anche di tecnica. Piace ancor più del solito, come Ramfis, il basso Dmitry Beloselkiy: la sontuosità esotica del materiale vocale è quella consueta, impreziosita però da un accresciuto idiomatismo nel canto all’italiana e da un’emissione meno ingolata. Mende, queste, mai rischiate dalla voce sanissima dell’altro basso, Roberto Tagliavini, come Re d’Egitto. Puntuali i comprimari: il tenore Bror Magnus Tødenes come Messaggero e il soprano Benedetta Torre come Sacerdotessa. Uragano d’applausi e ovazione in piedi per la recita pomeridiana anche trasmessa via radio e televisione. Nella prossima edizione del festival è prevista la ripresa dello spettacolo, ma intorno alla rinnovata presenza di Muti è ancora nebbia fitta.
foto © Salzburger Festspiele / Monika Rittershaus