Medea versus Medea
di Roberta Pedrotti
Al Teatro Comunale la seconda edizione di Bologna Modern si apre con la prima italiana di Medeamaterial di Pascal Dusapin accostata al melologo Medea di Benda, che deve la sua fama soprattutto all'apprezzamento di Mozart.
BOLOGNA, 11 ottobre 2017 - Medea, il mito classico per eccellenza, oggetto inesauribile di riflessioni e rivisitazioni. La Medea (1775) di Georg Anton Benda (o Jiři Antonin, 1722-1795), melologo semisconosciuto ma citato ampiamente nella storia della musica per l’impressione fortissima che Mozart scrisse d’averne ricevuto e per l’aura leggendaria che l’ha eletto fra gli ideali capostipiti del romanticismo musicale tedesco. Medeamaterial (1992), infine, di Pascal Dusapin (1955) su testo di Heiner Muller, prima italiana del secondo lavoro teatrale di uno dei più eminenti compositori contemporanei, allievo di Messiaen e Boulez.
Insomma, il dittico assortito dal Teatro Comunale per inaugurare la seconda edizione del festival Bologna Modern avrebbe tutte le carte in regola per stuzzicare la curiosità e l’interesse da più punti di vista, non ultimo il concetto stesso di modernità contestualizzato in epoche diverse. L’affluenza di pubblico non travolgente, tuttavia, suscita moderato stupore per una proposta appetitosa ma non proprio nazional popolare, benché la riflessione sul coinvolgimento di platee più vaste anche per la musica degli ultimi decenni e per repertori meno battuti resti di scottante attualità.
Certo, al di là delle premesse, è legittimo chiedersi cosa resta, per lo spettatore contemporaneo, del fascino che la Medea di Benda suscitò su un Mozart ventiduenne. Immaginiamo la forza del soggetto, il valore dell’orchestra di Mannheim, il presumibile carisma dell’attrice protagonista, l’idea in sé della parola che si impone intrecciandosi alla musica senza farsi canto, scardinando quel rapporto ancillare via via dell'una sull'altra tanto dibattuto dalla nascita stessa del melodramma. Tutti questi possibili effetti risultano quantomeno mitigati fuori dal contesto dell’età dello Sturm und Drang e né il testo di Friedrich Wilhelm Gotter (che non è Goethe o Grillparzer, per quanto non si debba trascurare la sua importanza storica) né la stessa musica di Benda ci fanno gridare al capolavoro riscoperto. Piuttosto ci impongono di rivedere le nostre certezze nella percezione storica dell’opera d’arte e pungolano con l’evidenza della partitura messa a confronto con la leggenda che l’ammanta. Perché non è affatto detto che, se Medea oggi non tuona e saetta come la voce rinata di un’antica rivoluzione, la sua fama non abbia fondamenti meritevoli di più attenta analisi, non ci lasci, dopo quella sorprendente conclusione repentina e minimalista sul suicidio di Giasone, con interrogativi aperti e questioni da approfondire, illuminando meglio e con l’esperienza teatrale questo capitolo della storia della musica.
Bisogna, poi, dire che a Benda è stato fatto un ottimo servizio, sia per la nitidissima concertazione di Marco Angius, sia per la prova di Salome Kammer, che non solo regge il palcoscenico praticamente sola per cinquanta minuti, ma lo fa anche con un abilissimo dosaggio stilistico ed espressivo, sicché da un classicismo composto e ai limiti della maniera si scivola in una mobilità sempre più turbinosa e chiaroscurata. Da un clima un po’ impettito, quasi archeologico, evidenziato da proiezioni che rievocano la Grecia antica fra l’incisione neoclassica (e la scenografia d’epoca) e la geometria di De Chirico, si passa ad atmosfere più cupe, immagini simboliche e naturalistiche, parole ferite, rabbiose, feroci. Così la immagina la regista Pamela Hunter, che crea un forte legame fra le due partiture di Benda e Dusapin in modo che ogni nodo rimasto sospeso nella prima parte trovi un significato nella seconda. D’altro canto, già alla prima assoluta Medeamaterial aveva esordito in dittico con il Dido and Aeneas di Purcell, altra mitica tragedia di una donna abbandonata, confermando la vocazione dell’opera al dialogo con il passato.
Dai pepli e dai chitoni, dalle incisioni d’epoca siamo catapultati nella contemporaneità. Ma la vicenda continua là dove l’avevamo lasciata sospesa nel 1775 e troviamo Giasone bloccato in un letto d’ospedale, probabilmente in coma dopo essersi pugnalato, la sua voce astratta attraverso un’amplificazione. Medea è lì, in una struttura ospedaliera che ospita l’agonia di lui e la follia di lei. Con voce dapprima anodina reitera parole e sillabe, quasi una straniata lallazione, per muoversi poi man mano su tessiture iperacute o in registro di fischio o evocando guaiti, ruggiti, versi ferini, pianti, strida. La Medea classica sul crinale dello Sturm und Drang ha la sua metamorfosi in una Medea contemporanea, fiaccata, incerta, avvilita (quando si autodefinisce “cagna di Giasone”, con i capelli biondissimi legati in una coda, il soprano Piia Komsi non può non ricordare Catherine Deneuve nel film di Ferreri), che scivolando nella follia trova una nuova forma e una nuova forza nel suo ego frantumato. Denuncia la violenza predatrice degli Argonauti in Colchide, concepisce (rivive?) la sua vendetta, ritrova un dialogo con la sé stessa del mito, le appare, proiettata in video, Salome Kammer a riecheggiare, con ferma declamazione, le sue parole e i suoi pensieri. In un certo senso l’antica, forte Medea “possiede” la debole vittima contemporanea, la libera con l’oblio, finché questa, con voce anodina, non sussurerà di non conoscere Giasone, quell’uomo steso su un letto d’ospedale che ancora sembra chiamarla, come in un’allucinazione. E allucinatoria è tutta la scrittura di Dusapin, che non solo tende la vocalità a effetti che trascendono la dimensione umana sia nel lamento e nella ferocia ferina, sia nella regressione infantile o nella tensione trascendente, ma circonda anche la protagonista con un quartetto vocale (due soprani, un mezzo e un controtenore, cui si aggiunge talora il coro fuori scena) che la ammanta come in un pulviscolo delirante di suoni, mormorii, particelle tonali e fonetiche, ossessioni. L’organico minuto, d’ispirazione barocca, con archi, organo e cembalo, favorisce uno straniamento arcano, una sospensione temporale dosata da Dusapin con somma maestria e perfettamente recepita dalla bacchetta di Angius in un suggestivo trasecolorare fra il fremente secondo Settecento e questa visionaria, psicotica regressione. Piia Komsi replica specularmente l’efficacia attoriale di Salome Kammer facendosi fulcro magnetico del monodramma, e colpisce per l’intensità con cui rende una scrittura ai limiti dell’eseguibilità. Le fanno degna corona i solisti Gabriella Costa, Sabina Martin, Katarzyna Otczyk e Konstantin Derri, così come vanno lodati gli attori Paul Sauter (Giasone calvo e massiccio, rinnova con la sua ruvida inettitudine l’antieroismo del condottiero belloccio del mito), Ulduz Ashraf Gandomi (la Nutrice), Federico Spitz e Anna Kehl (i figli, presenti solo in Benda).
Con loro alla ribalta finale, anche il maestro del coro Mario Benotto, Dalibor Pys (video), Francesco Canavese e Giovanni Magaglio (regia del suono), Daniele Naldi (luci). Il pubblico accoglie con un certo tepore Benda scaldandosi maggiormente – ed è comprensibile – per Dusapin. L’accostamento è ben pensato, ma l’effetto è quello della curiosità che prepara il terreno al piatto forte della serata, checché ne pensino gli scettici sul teatro musicale più recente.
foto Rocco Casaluci